Sono lieto di rivelare pubblicamente che quasi esattamente due anni fa Antonio Tabucchi conquistò la mia incondizionata ammirazione. Sì, quando prese carta e penna e scrisse per Le Monde un infuocato j’accuse contro il presidente della Repubblica. Ciampi, non Chirac, s’intende. Troppo facile, troppo banale criticare il capo dello Stato francese su un giornale francese, no, il vero coraggio, la vera gloria, è lavare i propri panni in casa d’altri. E che sarà mai, in fondo?
Che malinconia quando penso a quanto sono miseri gli argomenti di coloro i quali si scandalizzano per questo nobile e disinteressato esercizio di “sputtanamento” (con licenza parlando) del proprio Paese su un giornale che, questo bisogna pur riconoscerlo, non perde occasione per fare le pulci—per amore, è ovvio, solo per amore!—ai cugini d’oltralpe! Quanto provinciale e démodé questo modo di ragionare!
E cosa importa se trovare un francese che sia disposto a fare altrettanto nei confronti del proprio Paese è un’impresa quasi impossibile? Non siamo forse proprio noi italiani coloro i quali hanno portato la civiltà al di là delle Alpi? Insegniamogli noi, dunque, al cuginastro (in senso ironico!), che cos’è la signorilità, l’obiettività, oserei dire la “ferocia”—ecco la parola!—verso se stessi, quella che arriva a calpestare qualsiasi cosa, a cominciare da quel concetto noioso e démodé, appunto, che è il senso dell’onore nazionale!
Che dovrei dire, allora, della mia gioia, del senso di liberazione che ho provato oggi, quando ho appreso dal Corriere della Sera che Tabucchì (come affettuosamente lo chiamano i francesi) l’ha rifatto?
Questa volta, però, il bersaglio non è l’oramai straperdonato presidente Ciampi—con una magnanimità di cui un po’, via, siamo grati al grande Scrittore. No, stavolta il bersaglio è un altro, più modesto, ancorché infinitamente più meritevole della pubblica deprecazione, e financo di quel purissimo e incontaminato sentimento che solo gli stolti chiamano odio, mentre dovrebbe chiamarsi molto più sobriamente indignazione—oh che nobile e poetica espressione!
Il bersaglio, dicevamo, stavolta è il misero Giuliano Ferrara. Tabucchì racconta le ben note e recentissime diatribe, che rappresentano un «ritratto eloquente» dell’Italia, «Paese intimidito, disorientato, in larga misura imbavagliato nel suo sistema d’informazione». Un ritratto dove si parla di mafia, di bombe, di stragi, di terrorismo e delle «vecchie amicizie che certamente Ferrara ha nella Cia».
Il bieco Ferrara, ricorda il Nostro, ha detto: «Se mi ammazzano, ricordatevi che i mandanti linguistici sono Antonio Tabucchi e Furio Colombo, in concorso tra loro». Ebbene, queste sono parole «abiette», osserva con lucidità l’insigne Letterato, dietro le quali si cela la volontà di «far tacere uno scrittore che, come me, utilizza lo strumento della parola». E di qui il titolo dell’articolo, la «fatwa» (ma all’incontrario) che Ferrara avrebbe lanciato contro Tabucchì indirizzandosi «a uno sconosciuto affinché costui mi tappi la bocca in tempo, per disinnescare la libertà di parola di cui dispongo».
Noi uomini liberi, caro ed illustre Scrittore, siamo con te. Ora devo scappare perché ho terribilmente da fare, ma sappi che siamo con te. Usque ad mortem. Tuam, innanzitutto, nel caso il criminale appello sortisca l’effetto desiderato, e nostram in subordine .... E se anche il fato dovesse crudelmente precludereci l'estremo sacrificio, sappi che noi, amaramente destinati a sopravvivere a tanto strazio, ti onoreremo sempre! Per quello che sei. Occorre essere più espliciti?
[Il presente post è stato pubblicato per la prima volta presso windrosehotel.ilcannocchiale.it il 9 ottobre 2003]
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