October 28, 2006
La Rivoluzione Italiana di Paolo Guzzanti
Ovviamente ho aggiunto il link nel blogroll qua accanto. Il post che si legge appena arrivati è un mirabile esempio di quanto Guzzanti sia refrattario al precetto del porgere l’altra guancia. Buona lettura. Ci risentiamo tra qualche giorno.
October 27, 2006
Su Dio niente confusioni, se possibile
Anche per un fatto di sensibilità personale, inoltre, pochi dovrebbero essere più titolati di lui ad esprimere valutazioni culturalmente ben ponderate sul cosiddetto pensiero «teocon» (espressione per altro assolutamente insoddisfacente e inopportuna, come lui stesso sottolinea).
Dunque l’editoriale di ieri sul Corriere della Sera, che appunto affrontava la questione, sarebbe teoricamente di quelli da non perdere, a prescindere dalla circostanza che si possa concordare o dissentire. Purtroppo, però, le cose non stanno esattamente così. Intendiamoci, Magris ha svolto una riflessione che, sotto vari punti di vista, è magistrale, colta, godibile. Ad esempio, la definizione di «laicità» è da ritagliare e incollare.
La laicità […] non si contrappone alla religione e alla Chiesa, ma è la capacità di distinguere ciò che è oggetto di fede da ciò che è oggetto di dimostrazione razionale, ciò che compete allo Stato e ciò che compete alla Chiesa. Essa si contrappone al clericalismo intollerante come al laicismo intollerante; veri laici sono stati sia credenti e praticanti, quali ad esempio Jemolo, sia non credenti e non praticanti. Che il cristianesimo e, in Paesi come l'Italia, il cattolicesimo, costituiscano un punto fondamentale di riferimento anche per i non credenti e i non praticanti è ovvio, perché la Scrittura è, insieme alla tragedia greca, il più grande sguardo gettato nell'abisso della vita ed è una linfa e radice essenziale dell'universalità umana e della nostra civiltà in particolare.
Veramente “suggestiva” questa laicissima perorazione delle radici cristiane. E allora, qual è il problema? Beh, si va male a dirlo, ma non se ne può fare a meno: Magris ha fatto un po’ di confusione tra i «teocon» e gli «atei devoti», rendendo i due termini quasi sinonimi o quanto meno interscambiabili, mentre ovviamente tali non sono e non possono essere. Ecco come questo “incidente di percorso” è potuto accadere …
I cosiddetti «teocon» — termine alquanto infelice, da gergo di gruppuscolo o da complesso rock — possono capire poco di queste cose, perché in genere non hanno alcuna esperienza del Cristianesimo e del Cattolicesimo, non l'hanno frequentato e magari credono che l'Immacolata Concezione indichi la maternità verginale di Maria anziché il suo essere immune dal peccato originale. Della Chiesa hanno un'immagine vagamente nobile e consolatoria, così come si sa che nell'induismo ci sono divinità raffigurate con molte teste e molte braccia. La stessa autodefinizione di «atei devoti» — in cui l'arrogante professione di ateismo vorrebbe darsi una patina di cinismo libertino settecentesco, come quello degli abati galanti dell'ancien régime — non è la migliore premessa per occuparsi di cose di fede.
In effetti, la prima proposizione non avrebbe senso senza quella confusione (che si manifesta in pieno nella terza proposizione). Riuscite a intravedere le facce perplesse di Michael Novak, Richard John Neuhaus, Gorge Weigel, Robert Sirico o del nostro Flavio Felice nello scoprire che loro—cioè dei teologi e filosofi della politica cattolici fino a midollo—possono aver dato ad uno stimato intellettuale italiano con profonde connessioni «mitteleuropee» l’impressione di essere gente che non ha alcuna esperienza del Cristianesimo e del Cattolicesimo, ecc., ecc.?
Lasciamo stare il fatto che la definizione in questione è stata affibbiata agli interessati, come a suo tempo a qualcun altro fu affibbiata quella di neocon, e che in entrambi i casi il termine sia stato accettato, almeno inizialmente, obtorto collo dagli interessati medesimi. A parte questo, infatti, l’espressione si riferisce a dei credenti a tutto tondo. Se poi ci sono degli intellettuali che, pur non essendo credenti, riconoscono al cristianesimo un ruolo essenziale nella società e ritengono che esso sia in grado di rafforzare un’identità occidentale minacciata dalle ondate migratorie provenienti dai Paesi islamici e soprattutto dall’arroganza di certi imam, beh questo è un altro discorso: non puoi presentare il conto agli uni attribuendogli le eventuali colpe degli altri. Mi sembra lapalissiano.
Per fortuna, dicevo, in quell’editoriale—che per ironia della sorte si intitola "Dio, fede e confusione"—Magris ha scritto cose ben più interessanti. Ad esempio questa:
Quei reverendi (protestanti, in questo caso) che hanno visto nella strage dell'11 settembre la punizione di Dio per le colpe degli Stati Uniti e quelli che hanno invece salutato la vittoria elettorale di Bush come la volontà di Dio, sono ben più blasfemi degli avvinazzati che sacramentano all'osteria e che sono forse meno lontani, sia pur da peccatori, dalla tradizione.Nessuno può pretendere di tirare Dio dalla propria parte Gli «atei devoti» è meglio che non si occupino di cose di fede.
Qui, davvero, ci siamo. Attenzione a tirare Dio da una parte o dall’altra. Uno può al massimo sospettare certe “corrispondenze,” ma deve sempre trattenersi dal passare dalla congettura alla spiegazione, e deve sapere che, nel momento in cui sbandiera pubblicamente certezze su questo ordine di eventi, autorizza chiunque a considerarlo (non troppo arbitrariamente) un pazzo e un visionario, cioè un pericolo e una iattura per l’umanità.
L’Onnipotente ha certamente i suoi Disegni, ma all’uomo non è dato conoscerli, e forse è anche meglio che sia così: sai che delusione tremenda sarebbe, tanto per i figli della luce quanto per i figli delle tenebre, scoprire che, oggettivamente parlando, non tutto ciò che è cattivo è per il male e non tutto ciò che è buono è per il bene? Meglio non saperlo, o al massimo, appunto, coltivare segretamente qualche sospetto ... ;-)
October 26, 2006
Attacco alla libertà di espressione?
So che nei giorni scorsi anche il blog dei Riformatori Liberali è stato sotto attacco. Non vorrei che fossimo di fronte a una controffensiva in grande stile (si fa per dire) da parte di gente che ha in mente qualcosa di preciso contro chi solleva certe problematiche al confine tra religione e politica.
October 25, 2006
Souad Sbai, un ottimo acquisto per l'Italia
1) non è affatto parte integrante della religione e della cultura islamica;
2) non è neppure quel simbolo del pudore e della modestia delle donne musulmane che si vuole far credere, al contrario, è l'esibizione di un messaggio politico e di potere;
3) ha la funzione precisa di isolare le donne musulmane, di impedire che entrino in relazione con la società, di tenere lontano «l'infedele».
Ragion per cui, proibire l'uso del velo nelle scuole e nei luoghi di lavoro non è per niente una prepotenza che di fatto incoraggia lo scontro di civiltà.
In realtà, misure come queste vanno nella direzione opposta: tendono una mano alla parte più viva e avanzata delle comunità musulmane. In Francia dall'anno scorso c'è una legge che vieta l'uso del velo nelle scuole pubbliche. Dopo le proteste scatenate dai fondamentalisti nei primi tempi, i sondaggi dicono che la stragrande maggioranza delle allieve e delle donne delle comunità si sono apertamente schierate a favore della legge. Ora ci sentiamo più libere, confessano: più libere di parlare, di vivere, di essere noi stesse.
[…]
[L]'imposizione del velo rivela una concezione del mondo che non vela soltanto la donna ma anche l'uomo, la società, la mente. Che mortifica la sua parte migliore, la sua storia di civiltà e di creatività.
Souad Sbai, a modesto avviso di chi scrive, è una di quelle persone che l’Italia può dirsi onorata di avere accolto. Di lei mi ero occupato già un’altra volta su questo blog. La signora Sbai, tra l'altro, è stata recentemente ospite a Otto e mezzo (il link porta alla pagina contenete una sintesi e la registrazione della trasmissine) ed ha intrattenuto un interessante carteggio con Emma Bonino. Mi riprometto di tenerla d’occhio anche in futuro.
Murder in the Himalayas
Buddhist monk Thubten Tsering was one of the 75 Tibetan who, on September 30, were making a secret trek across the border into Nepal, moving in single file across a mountain slope near the 19,000-foot-high Nanpa La Pass, when Chinese border guards opened fire. “There was no warning of any kind, […] the bullets were so close I could hear them whizzing past. We scattered and ran,” he told reporters in Delhi on Sunday.”
Now that the accounts of survivors, now safely in India, can be pieced together with those of the mountaineers who witnessed the shooting and with the video footage taken by a Romanian cameraman who was at advance base camp on Mount Cho Oyo at the time, the full story of what happened that day in the Himalayas has emerged. Read The Independent article here for details.
October 24, 2006
October 23, 2006
Nessun errore di comunicazione
In effetti, non sembra proprio che ci siano stati errori di comunicazione. La Finanziaria, criticata da quasi tutti gli economisti che contano, avversata da Confindustria (con le dure parole del suo presidente, Montezemolo) e stigmatizzata dalle società di rating, sembra invece lo specchio fedele dei rapporti di forza interni alla maggioranza. Uno specchio persino troppo fedele. Nel senso che, in genere, non si dà una così meccanica ed esatta corrispondenza fra gli equilibri politici e le scelte di politica pubblica. Ma in questo caso è accaduto. Per capire la Finanziaria bisogna sempre rammentare che la maggioranza ha un baricentro interno fortemente spostato a sinistra. Fatte le elezioni, lo dissero subito i numeri: a trionfare era stata la sinistra massimalista nelle sue varie anime, mentre la sinistra moderata era rimasta al palo.
[…]
Ma se le componenti moderate si indeboliscono troppo, il sistema bipolare finisce per autodistruggersi. Nessun bipolarismo può durare a lungo se le fazioni estremiste (inidonee a governare le democrazie capitaliste) acquistano troppo spazio. Credo anch'io che sia in atto «un complotto». Ma non contro il governo Prodi. Contro il bipolarismo.
Iniziative benemerite (Frascati per esempio)
Come possiamo credere nelle promesse di modernizzazione del Paese se, una volta giunti al governo, i modernizzatori non colgono l'occasione per passare dalle parole ai fatti? Merito, rischio, responsabilità, individuo, mercato, liberalizzazioni, concorrenza: su parole chiave come queste nei giorni scorsi i riformisti dell'Unione hanno discusso a Frascati, in una Conferenza promossa da Glocus, il think tank presieduto dal ministro Linda Lanzillotta. Iniziativa benemerita, piena di idee condivisibili, ricca di suggestioni per chi vuol cambiare l'Italia. Ma come non vedere il contrasto fra le parole e i fatti? Come non vedere che le parole di Frascati sono ignorate, calpestate, umiliate nell'impianto della Finanziaria?
[…]
Gli elettori non sono né bambini sciocchi, né inguaribili egoisti, semplicemente si sono accorti che la via delle riforme, indicata dal Dpef e dal decreto Bersani sulle liberalizzazioni, è stata accantonata. Nel decreto Visco-Bersani molti avevano visto soprattutto la «faccia Bersani», nella Finanziaria sono inevitabilmente condotti a vedere soprattutto la «faccia Visco». Non già, come si ama credere a sinistra, per difetti di comunicazione, ma proprio perché la comunicazione è riuscita perfettamente. La gente ha sotto gli occhi il primo tempo, quello del risanamento e dei sacrifici, ma non vede prendere forma il secondo. L'antica diffidenza per la politica dei due tempi le suggerisce che il secondo tempo non ci sarà, o sarà la continuazione del primo. Difficile pensare che 20 miliardi di aggiustamento «aggiuntivo», ossia non necessari per tornare nei parametri di Maastricht, possano preludere a minori tasse e a vere riforme della spesa pubblica. Gli italiani hanno dimostrato più volte di saper inghiottire anche le medicine più amare, ma qualcuno deve saper loro fornire un perché.
Incredibile la tenacia di quest'uomo, la sua (donchisciottesca?) battaglia, spes contra spem, per scuotere la sinistra (riformista?). In ogni caso, una segnalazione doverosa.
October 19, 2006
Alla Right Nation la sua religione
Comunque le questioni fede/ragione e religione/politica stanno tirando da matti in questi mesi, grazie naturalmente al (o per colpa del) papa filosofo. Purtroppo, però, sono argomenti che poco si prestano sia alle sintesi giornalistiche sia ai dibattiti blogosferici, a mio parere. Una dimostrazione, di ciò, a voler essere “tignosi,” l’ha fornita l’articolo di Christian Rocca sul Foglio di ieri, dal quale si evincono tante cose ma nessuna che renda bene l’idea di ciò di cui ci si sta occupando …, ma è chiaro che il mestiere di cronista ha le sue regole, ovvero—se mi si passa l’espressione—le sue impudicizie, un po’, se vogliamo, come quello del blogger, anche se quest’ultimo ha meno giustificazioni, non essendo propriamente un mestiere ma un’attività teoricamente molto più libera, in quanto volontaristica (e spesso velleitaria che metà basta!), che non deve sottostare agli ordini del direttore del giornale o del capo redattore—tipo: “Fammi per domani un pezzo su questa cosa del dibattito sulla religione e la politica in America”—ma solo al libero arbitrio (e all’incoscienza) del titolare del blog.
Insomma, uno dovrebbe accorgersi quando un tema non è “a portata di mano”—per ragioni obiettive, prima di tutto, cioè di “genere letterario,” di spazio a disposizione, di contesto, ecc., e, secondariamente, nel caso (non necessariamente), per ragioni attinenti la soggettività di chi scrive, quali la propria formazione culturale, i propri interessi, capacità, attitudini, sensibilità, e così via. Il che non deve costituire un divieto tassativo a occuparsi di certe questioni, quanto piuttosto dovrebbe indurre a letture preventive molto approfondite, nonché ad una certa circospezione, ad una prudenza di gran lunga superiore a quella che si richiede quando si affrontano argomenti più leggeri.
Premesso questo, o meglio, assodato che tutto quanto sopra argomentato vale in primis per lo scrivente, faccio solo qualche strampalata riflessione a voce alta, senza alcuna pretesa, in margine alla questione del rapporto tra religione e politica, cercando di rendere l’idea di una convinzione che mi sono fatto nei mesi scorsi, dopo qualche lettura molto interessante.
Intanto devo dire che ho letto, anzi, ho «studiato», La Cattedrale e il Cubo, di George Weigel—la precisazione non è una specie di vanteria, perché semplicemente quello è un libro che, se ti limiti a leggerlo non ci capisci un beneamato tubo. E’ un libro fatto di (e su) altri libri, di citazioni, confutazioni, rimandi, diramazioni, analisi e sintesi di altri scritti, un libro fatto a strati che potrebbe essere riscritto ricavandone una ventina di altri saggi, più o meno uno per capitolo dell’attuale volume, tanto è “concentrato” e nel contempo, a tratti, puntuale fino alla pignoleria (a prescindere dal fatto che possa avere o non avere qualche bug metodologico o di contenuto), un libro che spazia tra filosofia, teologia, storia passata e recente, politica, sociologia, demografia, e probabilmente qualche altra disciplina che adesso mi sfugge. E’ un libro di sole 145 pagine! Tutto questo “soltanto” per dimostrare che c’è qualcosa (a dir poco) che non va in Europa, dove la politica è senza Dio e si erigono stramaledetti “cubi” non solo a Parigi (la Grande Arche de la Défence), in nome della laïcité, mentre negli States, dove Dio, in politica, c’è eccome (e qualcuno potrebbe anche essersi convinto che talvolta se ne faccia persino un uso “smodato” e “indebito”), tutto va bene o quasi. Cosa salverei di questo libro? Detto con simpatia, quasi tutto, meno la tesi di fondo dell’Autore… Mi spiego (si fa per dire).
Non mi piace neanche un po’ l’ostracismo a cui in Europa si vorrebbe condannare il cristianesimo. Ancor meno, ovviamente, mi piace la «cristofobia» denunciata da Weigel, sulla scia—a proposito di libri fatti di libri!—di Joseph Weiler, direttore del Jean Monnet Center, e del suo Un’Europa cristiana. Un saggio esplorativo, un libricino pubblicato alla fine del 2003, nel quale, pur riconoscendo l’assurdità storica di voler estirpare il cristianesimo dalla storia culturale dell’Europa moderna, si cerca di contrastare i laicisti europei sul terreno perfettamente “laico” della filosofia del diritto e della filosofia politica.
Detto questo, non credo che la salvezza spirituale (e di conseguenza quella politica) possa venirci dall’altra sponda dell’Atlantico. Per tante ragioni, la prima delle quali è—come Weigel non esita a riconoscere—la differenza abissale tra la storia e le tradizioni degli Stati Uniti e quelle dell’Europa, che si traduce nella non esportabilità di certe attitudes of mind tipicamente americane, alcune delle quali invidiabili, altre un po' meno, nel nostro contesto. In secondo luogo—ma in forma assai più dubitativa che assertiva—resto piuttosto perplesso sul preteso gap di religiosità e di moralità pubblica e privata tra la Old Europe e la patria di Thomas Jefferson, se si tiene conto dell’intero panorama americano, che presenta anche scenari un po’ diversi da quelli cui George Weigel fa riferimento. Per parte sua, va detto, lo stesso Weigel, non manca di sottolineare le contraddizioni del suo Paese.
Insomma, la “lezione” che, sia pure con grande intelligenza e sulla scorta di una sincera preoccupazione per le sorti dell’Europa, George Weigel ci ha voluto impartire con il suo libro fatto di tanti altri libri può valere fino a un certo punto, o meglio, vale per gli Usa—con la loro specificità e con quella che viene correntemente definita l’«anomalia americana», più nel bene, complessivamente, che nel male—più di quanto possa valere per l’Europa. Ecco perché affannarsi a rincorrere modelli americani serve a poco, se non è addirittura una perdita di tempo e uno spreco di energie.
Un po’ come accade, sul terreno puramente politico, quando si sbandiera la Right Nation e la si vorrebbe riprodurre nel nostro contesto. Un’altra lettura (studio) interessante della scorsa estate è stata La Destra Giusta, traduzione di The Right Nation, lo splendido malloppone di quasi 500 pagine scritto da John Micklethwait e Adrian Wooldridge. Alla fine del libro uno vorrebbe andare a vivere laggiù, non tanto perché da quelle parti sono “giusti” perché di destra o di destra perché giusti, ma solo perché quella è l’America, un posto dove una buona idea la puoi realizzare solo perché funziona meglio di tutte le altre, anche se ti suona male, tanto poi si può sempre tornare indietro e amici come prima. Ma da noi? Quando uno legge di come le classi dirigenti cambiano in fretta in America ci si può anche illudere, per un attimo, che noi si possa fare altrettanto, ma poi ti svegli e trovi Andreotti, De Mita, Prodi, … sempre loro, sempre gli stessi, dopo trenta, quaranta, cinquant’anni, e capisci che noi siamo nella vecchia Europa, anzi, nella decrepita Italia.
Poi ho letto Neocon e teocon, di Flavio Felice, direttore dell’Istituto Acton di Roma. Un volumetto volutamente molto più abbordabile di La Cattedrale e il Cubo, ma non del tutto privo di complicazioni (e vorrei vedere il contrario!).
Il guaio della blogosfera e dei giornali è che è così improbabile che si discuta di libri dopo averli letti e meditati. E questo post, per chi non avesse ancora afferrato, è appunto una calorosa esortazione ...
October 18, 2006
Islam chiama Ratzinger
Credetemi, è una lettura molto interessante. In coda alla sintesi di Magister l’elenco dei firmatari.
Non mi faccia velo un naturale imbarazzo ...
October 17, 2006
Meglio cristiani senza dirlo o non cristiani senza esserlo?
In realtà l’arcivescovo di Milano citava: le parole sono quelle di un vescovo martire dei primi tempi della Chiesa, sant’Ignazio di Antiochia, il quale a sua volta si richiamava alla Lettera agli Efesini:
Molto bella, direi. Semplice, profonda. Difficile che possa dar adito a equivoci. Vuol dire quello che vuol dire, punto e basta. Almeno così sembrerebbe a me, e invece …«Quelli che fanno professione di appartenere a Cristo si riconosceranno dalle loro opere. Ora non si tratta di fare una professione di fede a parole, ma di perseverare nella pratica della fede sino alla fine. E’ meglio essere cristiano senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo»
Vabbè, per dire, se ne discute animatamente—et pour cause!—anche a TocqueVille: un post del Megafono ha provocato una risposta di Gino, e numerosi commenti. Da una parte, sulla scia di un’opinione abbastanza diffusa, si propende decisamente per l’interpretazioe che intravede nelle parole del cardinale un attacco ai «teocon» (in primis ai cosiddetti «atei devoti» à la Marcello Pera e Giuliano Ferrara) e ai «teodem», dall’altra il tentativo di richiamare l’attenzione sul fatto che in quelle benedette parole non c’è proprio nulla di nuovo, perché semplicemente parlano di qualcosa che è eterno e non necessita di “rivisitazioni” che ne rivelino valenze non ancora esplorate.
Personalmente propendo per una lettura vicina a quella di Gino (Mauro). Ad esempio, mi piace molto la sua precisazione:
Notare che Paolo non invita i cristiani a chiudere la propria fede in una sorta di intimismo anonimo (come piacerebbe a certi laicisti radicali…), ma dice che se uno vive coerentemente la fede non ha bisogno di proclamarsi cristiano a parole, perche’ saranno i suoi comportamenti a renderlo evidente a tutti.Molto chiaro. In realtà, a mio parere, si equivoca parecchio anche su Marcello Pera, il quale ha una posizione piuttosto limpida: non sono un credente, ma riconosco che la società non può fare a meno del cristianesimo. Opinabile, ma legittima convinzione. Io, credente, penso che se non fossi tale direi esattamente le stesse cose. Ma essendo tale, più che proclamare qualcosa cerco di essere qualcosa, come esorta il cardinale. Pera, invece, può … soltanto proclamare (che del cristianesimo non si può fare a meno): a lui non si può chiedere la coerenza invocata da Dionigi Tettamanzi (e da san Paolo). Ma, appunto, non si può fargliene una colpa. Semmai, da parte dei buoni cattolici, gli si può riconoscere la buona volontà. Chiaro, invece, che dei laicisti abbiano qualcosa da ridire: non per un fatto di “coerenza,” tuttavia, bensì perché si sentono “traditi” da uno dei loro. Ma non di tradimento si tratta, poiché trattasi di una posizione intellettualmente libera ed autonoma. Per il resto ha ragione Gino: “Se poi abbia ‘scopi personali e strumentali’ o sia sincero, questo e’ un altro discorso.”
Marcello Pera - invece - non si dichiara cristiano praticante, ma riconosce l’importanza culturale delle radici cristiane e dei valori da esse derivati. La cosa mi pare evidentemente diversa.Se poi abbia “scopi personali e strumentali” o sia sincero, questo e’ un altro discorso. Io ho l’impressione che ci creda in quello che sostiene. Cio’ non significa che gli concedo carta bianca.
En passant, per parte mia, vorrei evitare di parlare di «teocon» e «teodem». Per quanto riguarda i primi, almeno sul côté cattolico, hanno detto già tutto, e bene, gli “imputati” maggiori, cioè i Gorge Weigel, Michael Novak e Richard John Neuhaus, i quali preferiscono per se stessi la definizione, certo giornalisticamente meno accattivante, di “cattolici Whigs,” che in Italia si può tradurre con “cattolici liberali.” Certe definizioni, si sa, sono generatrici di equivoci: uno sente parlare di teocon e subito pensa a Khomeini. Ma ci facciano il piacere! Sarebbe come confondere Marco Pannella con Nerone, e magari Daniele Capezzone con Tigellino … Suvvia, un po’ di senso della misura!
P.S.: Non arrovellatevi inutilmente, il titolo del post era solo una provocazione ...
October 16, 2006
In nome del Tibet
mentre i fuochi di artificio ieri sera illuminavano il cielo su McLeodganj, casa del Dalai Lama e di migliaia di rifugiati tibetani. "Devo rappresentare il mio paese a livello internazionale". E Chungtak non ha perso tempo, facendo appello per il rilascio di Gedhun Choekyi Nyina, che si pensa sia agli arresti domiciliari da parte dei cinesi dal 1985, quando aveva sei anni, tre giorni dopo che il Dalai Lama lo ha riconosciuto come la reincarnazione del secondo leader religioso tibetano più importante, il Panchen Lama.
Certo che il Tibet dimostra un certo talento nel farsi rappresentare: il sorriso del Dalai Lama, la sua ironia, la sua leggendaria (e contagiosa) risata, ed ora questa splendida fanciulla …
Eppure, a giudicare dai risultati, non si direbbe che le strategie di comunicazione prescelte siano le più efficaci. Vecchia polemica, d’accordo, che personalmente non vorrei contribuire ad alimentare: io sto col Dalai Lama, lo capisco e approvo il suo approccio “soft” alla questione tibetana, così come, dopo averla vista, trovo che anche Tsering non è male come “rapresentante a livello internazionale” del suo Paese.
Dicevo dei risultati, comunque, ed ecco questa notizia, riportata oggi, in italiano, solo da L’Opinione (in inglese ne riferisce la Reuters):
Sono 7 e non 2 le vittime dell’eccidio del Nagpa. Il 30 settembre scorso, la polizia cinese ha aperto il fuoco, senza preavviso e ad alzo zero, contro un gruppo di circa 70 profughi tibetani che stavano cercando di fuggire dal “paradiso” cinese attraverso il valico di Nagpa, a 5000 metri di quota, ad Ovest del Monte Everest, sul confine tra Repubblica Popolare Cinese e Nepal. Solo 40 tibetani sono riusciti a fuggire, salvi, nel Nepal. A quanto pare questi metodi da Cortina di Ferro non sono un’eccezione per chi vive lungo le frontiere cinesi, anche se non se ne parla praticamente mai. Ma questa volta il massacro non è passato sotto silenzio: una sessantina di alpinisti che stavano scalando il monte Cho Oyu hanno assistito all’eccidio dal Campo Base Avanzato. Il numero esatto delle vittime è stato confermato dal lama Tsering, un monaco buddista indiano, all’agenzia Asia News. Fra i caduti vi sono anche una monaca e un bambino.
E’ il genere di notizia che a Sua Santità deve togliere almeno un po’ del suo buonumore, ma certo non tanto da farlo deviare di un millimetro dalla sua Middle Way. Tra l’altro, Tenzin Gyatso, XIV Dalai Lama, a Roma nei giorni scorsi per ricevere dal rettore dell'Università Roma Tre, Guido Fagiani, la laurea honoris causa in biologia, ha ribadito la sua visione del problema:
«La nostra lotta è basata su una rigorosa non violenza e sul pensiero compassionevole, per questo tendiamo a minimizzare i sentimenti negativi nei confronti dei cinesi. Un mio vecchio amico che ha trascorso 18 anni nei gulag cinesi è venuto da me e mi ha detto di aver visto poche occasioni di pericolo. Tra queste, gli ho chiesto, quali? E lui: 'Il rischio di perdere la compassione verso i cinesi'. Vedete, il fondamento del nostro pensiero è di considerarli fratelli, anche se continuano a fare male al nostro popolo, questo è il puro significato della non violenza. Noi i problemi con la Cina vogliamo risolverli, ma per fare questo la Cina ci deve dare autonomia, dobbiamo poter preservare la nostra cultura e la nostra lingua. Se la Cina vuole essere una superpotenza rispettata a livello mondiale, basta con le mistificazioni della realtà, gli attacchi alla libertà personale e alla libertà di stampa: la Cina dev'essere ragionevole. E non riusciamo a capire perché, a queste nostre domande, la Cina non risponde in maniera favorevole.»
A Roma, ad ogni modo, come informa l’ampio resoconto dato da la Repubblica della “lezione magistrale” del Dalai Lama, si sono ascoltate anche parole come queste, su un paio di questioni non meno interessanti:
«La didattica moderna si concentra molto sulla conoscenza, sul cervello, ma trascura l'aspetto etico-morale. Per questo mi sento di lanciare un appello: pensiamo di più, insieme alla parte scientifica, a promuovere l'etica e il cuore. Solo attraverso questa via si può vedere più chiaramente la realtà. Per questo serve una mente più compassionevole, più calma e con più empatia, elementi fondamentali per una vita felice.»
[...]
«Non tutti i problemi del male possono essere risolti con la tradizione tibetana. Per questo ai giovani italiani dico: dovete trovare la risposta ai vostri problemi secondo la vostra tradizione. Cercare altrove non serve.»
Quel cercare altrove non serve è magnifico. Lo dico proprio perché voglio bene al Tibet e al suo vecchio Capo Sorridente.
October 13, 2006
Neanche Draghi risparmia la Finanziaria
Draghi, in particolare, non è stato tenero, ieri pomeriggio, durante l'audizione davanti alle commissioni Bilancio di Camera e Senato. La Finanziaria, a suo avviso, «in un’ottica di medio e lungo termine presenta alcuni aspetti problematici», per la semplice ragione che «la correzione, in termini netti, è affidata interamente ad aumenti delle entrate». Tradotto per noi non addetti ai lavori: tasse, tasse e ancora tasse.
Giudizio ancor più pesante se si pensa che—come giustamente ricorda Il Foglio (sempre nell’editoriale odierno)—proviene da un uomo
per formazione economica e prassi di governo prossimo alla componente più avanzata (e borghese, nel senso che intenderebbe Tommaso Padoa-Schioppa: colta e
internazionalizzata) di questa maggioranza.
Un altro editoriale, quello de Il Riformista, riconosce alle “osservazioni fredde e oggettive” del governatore molti meriti, in particolare quello di aver tirato fuori
un esempio che fa giustizia di molte contese sin qui risuonate sull’effettiva redistribuzione operata dalle modifiche alle aliquote ex Irpef attuate in finanziaria: la dimostrazione secondo la quale un operaio senza figli con soli 26 mila euro annui di reddito pagherà più imposte, per effetto del fiscal drag, mostra che la formula avanzata dal governo secondo la quale il 90% dei contribuenti ci guadagna è quanto meno azzardata.
La conclusione del Riformista è altamente condivisibile:
Poiché non è ancora troppo tardi, visto che il Parlamento ancora deve votare, la speranza è che almeno qualcuna delle osservazioni di Bankitalia possano essere accolte.
Ma l’editorialista del Foglio non sembra molto fiducioso, denunciando
la sensazione che a Palazzo Chigi la linea politica sia quella di una sopravvivenza un po’ spocchiosa.
Speriamo che si sbagli, come—si parva licet—spero di sbagliarmi pure io.
October 12, 2006
E Salvati evitò d'infierire
Hanno torto—Confindustria, gli «economisti», la Corte dei Conti—a criticare questa legge finanziaria? No, non mi pare.
A dirlo—cioè a scriverlo sul Corriere di oggi—è il riformista Michele Salvati, che tuttavia evita di infierire, ed anzi ricorda che
nessuno dei nostri tre soggetti ha mancato di riconoscere gli aspetti meritori della legge, le difficili condizioni sulle quali è intervenuta, i condizionamenti politici cui è soggetta.
Sempre a discarico, ma con un argomento invero a doppio taglio, ecco un bel riconoscimento a chi ha dovuto barcamenarsi tra “condizionamenti” a volte piuttosto pesanti:
tenere insieme su una Finanziaria rigorosa una maggioranza come quella che sostiene il governo e ottenere il consenso dei sindacati è stata prova non piccola di perizia politica.
Credo si possa dire tranquillamente che il Professor Salvati ce l’ha messa tutta per dire nella maniera meno irritante che
[q]uesta prima Finanziaria del centrosinistra (e sottolineo «prima », perché il giudizio serio dovrà essere dato a fine legislatura) affronta i suoi giusti obiettivi — di stabilizzazione, di crescita, di equità — soprattutto dal lato di maggiori entrate, non di minori spese.
Toccante, non vi pare?
Fall foliage
To appreciate the wild and sharp flavors of these October fruits, it is necessary that you be breathing the sharp October or November air. What is sour in the house a bracing walk makes sweet. Some of these apples might be labeled, “To be eaten in the wind.” It takes a savage or wild taste to appreciate a wild fruit. . . The era of the Wild Apple will soon be past. It is a fruit which will probably become extinct in New England. I fear that he who walks over these fields a century hence will not know the pleasure of knocking off wild apples. Ah, poor soul, there are many pleasures which you will not know! . . . the end of it all will be that we shall be compelled to look for our apples in a barrel.
--Henry David Thoreau
[Bright colors are seen in the valley of Mount Chocorua in Tamworth, N.H., Thursday, Oct. 5, 2006. Thousands of tourists are expected to visit New England for the annual fall colors. AP Photo/Jim Cole]
Autumn paddle
October 11, 2006
Drogati ... di chiacchiere
1) Non abbiamo forse una classe politica che vive soprattutto di chiacchiere estenuanti e rifugge assai spesso dalla dedizione umile e paziente allo studio sistematico e rigoroso di cosa ci si può inventare—e di come lo si debba tradurre in fatti—per far sì che possiamo guardare all’avvenire con un minimo di fiducia?
2) Non è l’apparire, il vendere fumo—no, non in quel senso, ovvio …—e il menare il can per l’aia l’occupazione generalmente prediletta da buona parte dei nostri eroi?
3) Non è sempre, o quasi, essenzialmente una questione di trovare non le soluzioni, ma le parole e le perifrasi giuste (dal punto di vista "ideologico," cioè in astratto), il tono giusto, insomma lo stile di comunicazione più adeguato al target, onde sopravvivere nel mare di discorsi, interventi, articoli, interviste, comparsate tv e chi più ne ha più ne metta?
Ebbene, se la risposta alle domande qui sopra dev’essere affermativa, come a me sembra, ecco che tutto si spiega. Chi ritiene, invece, che il nostro ceto politico si preoccupi, per così dire, più dei fatti che delle apparenze, continui pure a indignarsi. Il fatto è questo: chiacchierare, darsi sulla voce reciprocamente, duellare fieramente davanti alle telecamere è sicuramente stancante, oltre che gratificante (per chi si contenta), ma studiare, arrovellarsi su un problema, documentarsi, insomma fare le cose sul serio e per bene, è altrettanto certamente assai meno gratificante e molto più snervante, e soprattutto è una fatica che non può essere alleviata con nessun tipo di espediente … non c’è modo di venirne a capo con qualche “scorciatoia.” Quando si richiede il massimo di lucidità e di sobrietà intellettuale, quando le chiacchiere stanno a zero e si ha a che fare con la cruda realtà di un problema che assorbe tutte le nostre risorse mentali, c’è solo un modo per “tirarsi su:” riuscire nell’intento, portare a termine la missione.
La differenza tra l’una e l’altra attitude of mind è paragonabile a quella tra la guerra guerreggiata e la guerra simulata di un videogame. Nel secondo caso, malgrado i “giocatori” possano assumere tutte le pose dei veri guerrieri e sentire visceralmente la sfida, si tratta pur sempre e soltanto di un gioco, mentre nel primo, direbbe don Abbondio, “ne va, ne va della vita,” quella vera e, soprattutto, della morte, quella tosta, appunto, non la sua rappresentazione drammatica. E allora, per rimanere all’esempio, il simulatore di guerre più o meno stellari, assumendo droghe, può illudersi che la propria performance migliori—diventando, che so, più piacevole ed emozionante—, ma con ogni probabilità riesce solo a renderla meno efficace. Chi, invece, la guerra la fa sul serio, non potendo permettersi il lusso di commettere neppure il più piccolo errore, si guarda bene dall’”aiutarsi” con qualcosa che possa provocare sì una temporanea “felicità,” ma al prezzo assolutamente folle di una percezione distorta della realtà e dei rischi che ciò inevitabilmente comporta.
Ecco perché, a mio avviso, il problema vero non sono i vizi privati dei parlamentari, bensì il Vizio di una politica ridotta a chiacchiera, a puro divertissement. Il ben noto «teatrino della politica». Déjà vu, déjà vécu, appunto. Gli attori si muovono sulla scena esattamente come il copione richiede: vivono di apparenze e finiscono per cedere a tutte le tentazioni cui questa effimera condizione esistenziale li espone.
P.S.: Prevengo qualche obiezione scontata. Questo è il post più "qualunquista" che mi sia mai capitato di scrivere. Ne sono consapevole, come mi rendo perfettamente conto che non si può fare di tutta l'erba un fascio, ecc., ecc. Faccio però notare che trovo sconcertante lo "stupore" generale, sebbene personalmente sia assolutamente contrario all'uso di droghe di qualsiasi tipo. Non voglio neppure prendermela con l'ipocrisia di chi fa finta di cadere dalle nuvole, ho solo messo l'accento sulla causa piuttosto che sugli effetti.
October 9, 2006
Giddens, la Finanziaria e la rana
«c’è una rana che se ne sta tranquilla nel suo stagno: la temperatura dell’acqua cresce a poco a poco ma lei non se ne rende conto. Finché, quando se ne accorge, è troppo tardi. Ormai è bollita.»
La rana è l’Italia, of course. Ma il celebre sociologo, probabilmente, se la gode un mondo a far dare all’Italia della rana nientemeno che da un francese, cioè da un signore che un anglo-sassone poco garbato, e in un momento topico, chiamerebbe senz’altro “frog” (rana, appunto), per via di un’opinabile abitudine culinaria dei transalpini e, soprattutto, dell’effetto che il sound della lingua di Molière produce nelle orecchie dei figli d’Albione. Fatto sta che, stavolta per colpa di Prodi e di Padoa-Schioppa, ci tocca beccarci questo simpatico, ma alquanto irriverente, complimento da un forestiero, oltretutto prestigioso.
Purtroppo, però, Lord Giddens ha ragione su tutto il fronte. Ed è solo per questo che, obtorto collo, riproduco qui di seguito ampi stralci dell’intervista che Gian Guido Vecchi, in quel di Como, ha strappato al professore britannico, ospite della Fondazione Antonio Ratti. Per ragioni di chiarezza e brevità ho riportato solo le risposte aggiungendo dei titoli. Qui, comunque, c'è la versione integrale (per chi sopporta il formato).
Una Finanziaria senza riforme
«Guardi, io appoggio di sicuro alcune riforme che il governo ha cercato di introdurre alcuni mesi fa con il ministro Bersani, perché in Italia è necessario liberalizzare il mercato e soprattutto il mercato del lavoro. Se la Finanziaria non contribuirà alle riforme strutturali di cui parlavo, certo c’è da chiedersi che senso ha. Probabilmente l’Italia ha un tasso di crescita più alto di quanto si pensi. E questo può aver spinto il governo a ritardare parte delle riforme. Il che non è necessariamente una cosa positiva, anzi. Del resto è noto come in Italia non sia facile introdurre riforme. Questo è l’unico Paese che io conosca nel quale un uomo, Marco Biagi, è stato ucciso perché aveva tentato di introdurre una riforma del mercato del lavoro.»
I riformisti sconfitti dal «partito delle tasse»
«Il problema non è la leva fiscale in sé, ma come la si usa: dipende da che tipo di tasse si introducono e cosa si farà con gli introiti. Con il governo laburista, per dire, si è visto che sono serviti a sviluppare politiche sociali.»
«Se è per il livello, la situazione non è troppo differente dalla Gran Bretagna, dove le tasse cominciano ad aumentare intorno alle 30 mila sterline. E in Italia sono le classi meno abbienti ad essere colpite in particolare dalla tassazione: anche qui, però, si tratta di vedere come vengono utilizzati i benefici, i “crediti” fiscali. La differenza sostanziale, piuttosto, è che da noi si è puntato alla creazione di nuovi posti di lavoro.»
«Il problema è che in Italia ci sia un mercato del lavoro diviso tra chi è protetto e chi non ha alcuna sicurezza. Questa non è giustizia sociale: superare tale divisione significa garantire l’equità e incrementare l’economia, come è accaduto nei paesi scandinavi. E poi c’è il mercato informale, sommerso, il che naturalmente significa tanti evasori.»
Padoa-Schioppa si è stupito delle reazioni dei «ricchi» …
«Credo che “ricco” sia il termine sbagliato, in effetti. E comunque bisogna stare molto attenti con queste definizioni, perché si riferiscono a persone singole, non a nuclei familiari: l’ineguaglianza non deve mai essere valutata considerando l’individuo, ma il contesto.»
Il Partito democratico
«Ora non vedo come questa F. possa risolvere i due problemi principali: la scarsa produttività e l’occupazione. C’è una tesi che può unire i partiti del centrosinistra italiano: senza riforme del mercato del lavoro e un aumento della produttività non ci sarà una vera giustizia sociale né crescita del Paese. Si tratta di mettere a punto un programma comune intorno a queste idee.»
.....
P.S.: Un blog sull'economia italiana, Italian Economy Watch, tenuto da Edward, un britannico che vive a Barcelona, mi sembra una risorsa da tenere particolarmente d'occhio in questo momento. Soprattutto perché (ieri) ha ripreso e commentato l'articolo dell'Economist che qui si era segnalato. Oggi, inoltre, ha scritto un altro post sulla Finanziaria.
October 8, 2006
Un paio di risposte interessanti
Legata all'immigrazione clandestina, c'è la prostituzione. Strade di periferia invase da nigeriane e ragazze dell'Est. In un trionfo dell'ipocrisia del quale a farne le spese sono solo le schiave del sesso. Ma non sarebbe il caso o di riaprire le case chiuse o di punire anche i clienti?
«Non ho alcuna obiezione a prendersela con i clienti. Quando si cita la privacy a difesa di uno squallido maschio che gira per la Salaria alla ricerca di ragazze dalle quali ottenere a pagamento ciò che non sa ottenere altrimenti, beh, della sua privacy mi interessa ben poco.»
[…]
… Ma intanto si arriva a costruire i muri come quello di Padova.
«Questo è un altro capitolo, rappresentato dalle politiche urbaniste che debbono accompagnare l'inserimento delle comunità di immigrati e dovrebbero prevenire il fenomeno banlieu, dove le forze dell'ordine possono solo spegnere gli incendi. Si tratta di decongestionare questo eccesso di presenze. Vuole che le dica una cosa socialista? Questi fenomeni li crea l'ingordigia di alcuni proprietari di immobili i quali all'affitto di una famiglia preferiscono sei studenti o ancora meglio sedici immigrati che vengono messi a centimetri quadrati, realizzando un profitto fuori di misura. Via Anelli è figlia di questo. Due bravi sindaci, una di centrodestra prima e uno di centrosinistra poi, si sono adoprati per decongestionare le due concentrazioni etniche che si sono formate. Ma se non si fa in tempo, prima le forze dell'ordine debbono sbrogliare la matassa, poi ci si mette un muro per evitare che si riaggrovigli».
Ma anche il resto è interessante.
October 6, 2006
Prodi’s left turn
It took Romano Prodi only a few months to dash hopes that his center-left government would be a reformist one. After a good start in deregulating some of Italy's service sectors and moving to lower government expenditures, the prime minister is back on traditional ground, pushing higher taxes and economic protectionism.
[…]
Mr. Prodi's problem is that he wants to be seen as a passionate left-winger and a liberal reformer. He can't be both. If he wants, as he claims, to revive Italy's economy, the reformer instinct will have to win out.
and The Economist …
Those who hoped that Romano Prodi's centre-left government would end the three-card-trick techniques of public accounting so dear to his centre-right predecessor, Silvio Berlusconi, must have been disappointed by its first budget.
A spectre is haunting Europe-the Democratic Party of Italy
How a Labour Party member of the British parliament, and former minister for Europe in Tony Blair's government, sees the incumbent centre-left Democratic Party in Italy. By Denis MacShane on openDemocracy’s website.
The creation of the Democratic Party in Italy is a decisive - and exciting - turning point in the history of progressive politics in Europe. For the first time in Europe there has been a serious attempt to overcome the party political divisions, often sectarian, of the 20th century. The left's fragmentation and its indifference to the heritage of European liberalism has allowed a more flexible democratic right to reorganise itself at key moments in 20th-century European history and form coalitions sufficiently attractive to voters to win power over long periods.
[…]
Where then does a united Italian Democratic Party fit into the European and international party organisations? There is now a degree of incoherence in the organisation of left parties internationally. The venerable Socialist International exists and allows a grouping of all the democratic socialist parties globally. The difficulty with the SI is that it has never allowed room for the US Democratic Party, since the latter clearly is neither socialist, nor interested in affiliating.
In this vacuum, the highly ideological Bill Clinton - a man who knows what Willy Brandt achieved at the Bad Godesburg congress of the SPD and what Felipe Gonzalez did when he forced the PSOE to drop Marxism from its statutes - helped set up the Progressive Governance network with Tony Blair, Massimo d'Alema, Gőran Persson and Gerhard Schröder in the late 1990s.
[…]
The creation of the new Democratic Party in Italy - whose new name echoes the great US Democratic Party of Roosevelt, Kennedy, Johnson, Carter and Clinton - is an important signal that Italian progressive politics is embarked on a new path.
[…]
The Party of European Socialists should welcome the Democratic Party of Italy without ambiguity as the realisation of the long dream of unification of all the forces for progress and reform in Italy. A double affiliation, at least in the first period, to both the PES and the European Liberal Democrats and Reformist Group (EDLR) should pose no problems.
Pan-European political organisation and party groups are still at an embryonic or learning stage. The Democratic Party of Italy can be an important force for the realignment of European politics and build bridges between Europe's parties of the left, as part of the effort to regain the ability to speak to each other and act effectively on the basis of unity and solidarity.
October 4, 2006
Finanziaria 'Pane e Giustizia?'
Ci vorrà tempo, ha scritto il professore, “per stabilire con precisione l'impatto redistributivo della Finanziaria,” e occorrerà aspettare naturalmente la conclusione del lungo iter parlamentare, ma è chiaro che la sua «filosofia» (o quanto meno, il modo che è stato scelto per presentarla agli italiani) è quella di una «Finanziaria giustiziera». Un messaggio—ha osservato Ferrera, a mio avviso correttamente—in cui “i simboli e gli argomenti della sinistra estrema (o comunque della tradizionale ortodossia socialista) hanno nettamente prevalso su quelli del nuovo riformismo liberal-progressista.”
E quali sono (erano) gli argomenti della (dimessa) linea liberal-progressista? Non certo quelli proposti dalla retorica dei Comunisti italiani e di qualche leader sindacale, con tanto di ricchi che piangono (finalmente!) lacrime amare. Che fine ha fatto, ad esempio, quella “ridefinizione” dei concetti stessi di eguaglianza, giustizia e libertà in cui si sono a lungo esercitati, in tempi recenti, i cervelloni della Margherita e della componente riformista dei ds? Si era detto, scritto e proclamato, nelle sedi appropriate, che
[l]e riforme di cui l'Italia ha bisogno […] sono quelle che cambiano gli ingranaggi malati del nostro modello sociale: il familismo bloccato, il dualismo del mercato del lavoro, il «pensionismo» del welfare, l'incapacità della scuola e del settore produttivo in generale di valorizzare meriti e talenti, soprattutto quelli dei giovani e delle donne.
Ebbene, dove sono le riforme? Da nessuna parte, purtroppo. Piuttosto, altri proclami, altre logiche, e di ben altro segno. Ma, attenzione, non si trattava mica di rinunciare alla «giustizia». Ferrera lo chiarisce molto bene:
Anche questa prospettiva lib-lab poneva un problema di giustizia. Ma lo poneva nei termini dell'egualitarismo liberale: combattere le disuguaglianze ingiuste, ma promuovere le differenziazioni eque; lottare per le pari opportunità, ma contrastare i livellamenti iniqui.
Per non dire che, secondo il Nostro, i veri poveri non trarranno alcun beneficio … In compenso, a quanto sembrerebbe, le persone che appartengono più o meno alla mia fascia di reddito riceveranno una boccata di ossigeno. Ma non mi sogno nemmeno di farne una questione personale, e dunque nessun ringraziamento (oltretutto, appunto, bisogna vedere come andrà a finire …).
October 3, 2006
Homeschooling & Americanate
Innanzitutto segnalo, in italiano, questo articolo di Repubblica (del 4 marzo 2006) piuttosto ricco di informazioni e un’intervista (moderatamente a favore) a don Robert Sirico, presidente dell’ Acton Institute.
Dell’articolo di Repubblica riporto qui solo ciò che mi sembra assolutamente indispensabile:
Perché, potremmo chiederci, i genitori decidono di far rimanere i propri figli a casa? Le risposte sono diverse. Per il 31% dei genitori iscritti all'Hslda [la Home School Legal Defense Association] si tratta di un modo per evitare che i bambini entrino in contatto con droga, bullismo, parolacce e volgarità. Il 30%, invece, preferisce optare per una ferrea educazione morale e religiosa da impartire all'interno delle mura domestiche, mentre il 16% si è detto insoddisfatto degli standard d'insegnamento nelle scuole locali frequentate dai propri figli. Tra le altre motivazioni, anche la possibilità di permettere ai bambini di esplorare il mondo, sviluppare l'immaginazione e competenze da poter sfruttare negli anni successivi oppure quella di averli sempre vicini, a casa, e non perdere i loro anni più belli.
Le statistiche, inoltre, spiegano che la famiglia-tipo che decide di educare i propri figli a casa è bianca e medio borghese, ma la "moda" si sta diffondendo anche tra le famiglie di colore e di origini ispaniche. Il sistema, inoltre, è attuato dalla maggior parte delle famiglie dei nativi americani. "Non sono mai stata soddisfatta dell'idea di
un'istruzione istituzionalizzata e uguale per tutti - spiega Isabel Lyman, autrice del best-seller "Homeschooling revolution", manuale indispensabile per i genitori che vogliono intraprendere questa strada - perché con i piani scolastici non si può fare di tutta l'erba un fascio: è come se vestissimo i nostri ragazzi con magliette tutte della stessa misura. Le scuole - prosegue - tolgono ai ragazzi tutta la gioia dell'apprendimento, e non prendono in considerazione gli interessi specifici di ogni studente, i loro bisogni e i loro percorsi. Il sistema intero dell'educazione pubblica è contro gli studenti".
Appurato quanto sopra, per un minimo di informazione, aggiungo qualche (frettolosa) considerazione personale.
Le mie riserve sul homeschooling sono, devo dire, piuttosto pesanti. Non perché sottovaluti il ruolo dei genitori nell’educazione dei figli. Se così fosse non avrei capito niente di cosa è la formazione dei giovani. Il punto, allora, non è questo, quanto piuttosto il fatto che la scuola non è sostituibile.
Scuola non vuol dire insegnanti (con le loro idee, giuste o sbagliate, i loro pregi e limiti), strutture (efficienti o carenti), programmi e libri di testo (adeguati o lacunosi, “ideologici” o rispettosi dei vari orientamenti politici, filosofici, religiosi, ecc.), studenti (bene educati o “assatanati”), fatica, impegno, "metodo di studio" e così via. Scuola è tutto questo insieme, ben mescolato, e qualcosa di più, qualcosa di indefinito, forse misterioso: un ambiente di apprendimento, un clima, che non può essere ricostruito altrove.
Scuola è una squadra di ragazze e ragazzi che imparano, che dicono parolacce, che scoprono la vita, che si divertono e si annoiano insieme, in un posto in cui trascorrono una quota della loro esistenza condividendo tutto, o quasi, con dei loro coetanei, imparando, tra l'altro, a conoscere il mondo degli adulti dai loro insegnanti (ma anche dai presidi, dai bidelli e dal personale di segreteria), di cui—in maniera graduale e relativamente soft—possono scoprire punti di forza e debolezze (il che risparmierà loro, più avanti, amare sorprese o comunque quei clamorosi errori di valutazione in cui incorrono tutti coloro i quali conoscono il mondo soltanto per sentito dire, magari con il filtro di una famiglia particolarmente "protettiva" e refrattaria al confronto con la realtà esterna).
Dire «scuola», a mio parere, è come dire «teatro»: quando si abbassano le luci sulla platea e il rumore cede il posto al silenzio, ecco che prende vita una rappresentazione che nessuna lettura domestica dei testi può surrogare, nessuna registrazione televisiva o cinematografica. Lo spettacolo è qui ed ora, e si nutre di ogni respiro di coloro che sono sul palco o in platea, della luce che emana da quegli sguardi puntati verso il palcoscenico. Avete mai fatto caso? Quando gli attori sentono il pubblico e viceversa, allora lo spettacolo decolla, diventa una cosa grandiosa e inspiegabile, una magia travolgente: un attimo equivale a un anno intero. La tragedia è quando questo non accade …
Così nella scuola: non sempre la magia si realizza, ma quando questo accade, lì c’è un salto, lì qualsiasi gap può essere colmato. Puoi non aver capito niente per sei mesi, e in istante ti trovi avanti di dodici, un passo che equivale all’intera corsa.
Pur rispettando—e in qualche misura comprendendo—le motivazioni dei genitori che fanno quel tipo di scelta, penso che inunciare a tutto questo significhi non avere un'idea sufficientemente precisa di cosa significa essere bambini, ragazzi, giovani, non aver capito assolutamente nulla di cosa sia la cultura: non un insieme di nozioni, non il nome latino dell’orrendo insetto morto di cui parla Robert Sirico. Da quell’inguaribile filo-americano che sono, lasciatemi dire, per una volta, che queste storie sono vere e proprie «americanate».
Una decisione saggia
Che non sempre delle profonde convinzioni religiose siano buone consigliere è cosa che (quasi) tutti, credenti e non credenti, abbiamo imparato a nostre spese dalla storia, oltre che, naturalmente, dall’attualità. Prendiamo un caso in qualche modo emblematico: quello degli homeschoolers, un fenomeno in ascesa negli Stati Uniti, ma che molto difficilmente prenderà piede in Europa. E la cosa, appunto, non mi dispiace affatto, tanto che sono d’accordo con una recente decisione in materia da parte della Corte Europea dei Diritti Umani, che ha respinto la protesta di due genitori tedeschi, Joshua e Rebekka Konrad—che per motivi religiosi si oppongono, in particolare, alle lezioni di educazione sessuale impartite nelle scuole—, contro il divieto, in vigore nel loro Paese, di educare i propri figli a casa.
Insomma, si è ritenuto che l’interesse nazionale debba prevalere sul diritto dei genitori a farsi carico direttamente dell’educazione dei figli. La Corte, in altre parole, ha riconosciuto che, dal momento che le scuole rappresentano la società, e visto che è interesse dei ragazzi diventare parte della società stessa, il diritto dei genitori non può arrivare fino al punto di privare i figli di un’esperienza così fondamentale.
Grazie a Samantha, che ha segnalato questo post (piuttosto risentito), dal quale ho appreso della decisione della Corte.