November 17, 2006

Quelli che i teo-con ...

E’ apparso ieri sul Giornale l’articolo di Gaetano Quagliariello di cui mi occupo in questo post. Professore di Teoria e storia dei partiti politici e di Storia comparata dei Sistemi Politici Europei presso la Facoltà di Scienze Politiche della Luiss Guido Carli (Roma), nonché presidente della Fondazione Magna Carta e senatore di Forza Italia, Quagliariello ha affrontato un argomento—i teo-con, con particolare riferimento ai risultati delle elezioni di medio termine negli Stati Uniti—che è attualissimo, e tale è destinato a rimanere ancora per un pezzo.

Quagliarello svolge una riflessione piuttosto articolata. Innanzitutto lamenta giustamente che c’è un mucchio di gente che parla e scrive dei teo-con senza avere la più pallida idea di cosa si tratti. E dunque si prende la briga di spiegare che cosa si deve intendere con quel termine. Avendo rilevato io stesso qualche “anomalia” nel modo in cui la questione viene spesso affrontata—il professore fa esplicitamente il nome di Claudio Magris, che anch’io avevo chiamato in causa a tal riguardo—una conferma così autorevole mi conforta non poco.

Della “infelice definizione” di cui sopra, spiega Quagliariello, si è parlato tanto “ma per lo più a vanvera.” Ad esempio


per taluni i teo-con sono i cattolici più conservatori e integralisti; per altri dei disprezzabili «atei devoti» alla Maurras; per altri ancora dei convertiti di fresco che, in quanto neofiti, non accettano che la forza della loro passione possa contaminarsi con il necessario compromesso. Questa confusione di significati ha reso difficile persino polemizzare. Accade che si perda del tempo per rispondere a critiche vanesie frutto d'incontinenza intellettuale (è vero professor Magris?), mentre si lasciano inevase quelle che ai teo-con pongono interrogativi più seri.

Segue una definizione storico-critica del termine che più accurata e approfondita di così non potrebbe essere, se pensiamo che, malgrado l’autorevolezza dello scrivente, stiamo parlando pur sempre di un articolo di giornale. Qui non cito perché sarebbe troppo lungo (e non mi sembra il caso di estrapolare da una sintesi che probabilmente è già tirata al massimo), ma invito caldamente i miei lettori a leggere con attenzione quella parte del testo.

Tra gli “interrogativi più seri” ci sono quelli posti dal cardinale Scola nell'ultimo numero della rivista Oasis. Il patriarca di Venezia, rassume Quagliariello,

si chiede, innanzi tutto, se sia corretto, e sopattutto utile, nel dialogo con il «grande Oriente», accreditare un'identificazione assoluta tra il cristianesimo e la civiltà occidentale. Sulla scorta di tale interrogativo, e alla luce dell'esperienza degli ultimi anni, si domanda poi se l'esportazione della democrazia non sia stata una pretesa intellettualistica e astratta e se, al cospetto di quel fallimento, non ci sia oggi da rivalutare il pacifismo profetico al quale Giovanni Paolo II concesse tanta forza, al momento delle decisioni sulla guerra in Irak.

Per la verità, qui mi sembra necessario fare una precisazione: il pensiero del cardinale, nell’originale, è un po’ diverso. Angelo Scola, cioè, invita a riflettere soprattutto

sul perché in Oriente sia stata resa possibile una confusione così totale tra Cristianesimo e civiltà occidentale. Questa confusione consente a tanti fratelli islamici di denunciare insieme Cristianesimo e Occidente come se fossero la stessa cosa, accomunati nella stessa decadenza; non possiamo limitarci a liquidarla come una critica semplicistica.
[Il corsivo è mio]
E poi così prosegue:

Non credo che i cristiani debbano gettare un velo di negatività su tutta l'esperienza moderna che così fortemente segna l'Occidente, ma certo è importante raccogliere la critica "orientale", assumendo interrogativi coraggiosi circa la pretesa di ridurre la religione a un fatto privato, la pretesa intellettualistica e astratta delle "democrazie da esportare", la pretesa di una insopprimibile libertà di coscienza che però coincide con il "vietato vietare". Insomma, grande è l'attualità della formula conciliare: il
Cristianesimo genera per sua natura culture, ma non si lega a nessuna cultura.


A me sembra, insomma, che il ragionamento del cardinale non sia stato interpretato in maniera del tutto corretta. Questione di accenti, certo, ma accenti che spostano di parecchio il punto focale del discorso. Ma su questo penso che tornerò con un post ad hoc.

Quagliariello prosegue il suo ragionamento agganciando la sconfitta dei repubblicani:

L'eco di questi stessi interrogativi è sembrato risuonare nelle sentenze di condanna - assai spesso più rozze - che in tanti si sono affrettati a pronunziare dopo la sconfitta di Bush nelle recenti elezioni parziali: quei risultati, ancor più che punire una politica, avrebbero segnato il tramonto di un'analisi. Proprio quella che i cosiddetti teo-con, con più coerenza e completezza di altri, avevano proposto dopo l'11 settembre. A me pare, invece, che questa risposta risulti quanto meno affrettata.Scola, infatti, ha ragione quando individua l'errore - innanzi tutto storico - di chi sovrappone Occidente e cristianesimo. Quel che però preoccupa, e dovrebbe vieppiù preoccupare la Chiesa, è che a tale percezione sbagliata nel mondo islamico non corrisponda alcuna realtà effettiva. A Ovest, infatti, il legame tra cristianesimo e democrazia è percepito in modo sempre più rarefatto: soprattutto in Europa.
[Il corsivo è mio]

Qui, mi sembra, il presidente di Magna Carta ha colto nel segno: ma quale identificazione? L’Occidente, malgrado le indubbie «radici cristiane», ha oggi abbastanza poco da spartire con il Cristianesimo. No so se questo debba costituire la principale preoccupazione della Chiesa, ma certamente la cosa, da un punto di vista cristiano-cattolico, è piuttosto grave. Da altri punti di vista, indubbiamente, può rappresentare una “conquista,” ma personalmente, al posto di un ateo, laicista e mangiapreti, ci penserei bene a rallegrarmene. No credo, in altre parole, che occorra essere degli «atei devoti» à la Marcello Pera e Giuliano Ferrara per arrivare a preoccuparsi delle conseguenze, per la polis, della scristianizzazione galoppante. Ma questo (forse) è un altro discorso (o forse no).

Anche la conclusione di Quagliariello mi sembra condivisibile:

E questa è, tra l'altro, la causa del fatto che l'impegno per la diffusione della democrazia sia stata intesa come semplice esportazione di procedure con un insufficiente riguardo per i suoi fondamenti e i suoi principi inalienabili. La pratica, così intesa, oltre che inutile, può rivelarsi dannosa. Essa sta rischiando di legittimare quell'infausto connubio tra democrazia e relativismo già denunziato da Giovanni Paolo II, concedendo la patente della sovranità popolare a dittatori e gruppi terroristici. Il rischio è sotto i nostri occhi: cosa è accaduto in Iran dopo la vittoria di Ahmadinejad? E all'interno dell'Autorità palestinese con la vittoria di Hamas? E cosa accadrebbe in Libano se, come taluni propongono, si accettasse senza scandalo il doppio ruolo degli Hezbollah come forza «di lotta» e di governo?Queste domande, però, se da un canto evidenziano le insufficienze di una politica chiamando in causa anche responsabilità precise sul modo d'interpretare il dopo-guerra iracheno, dall'altro non debbono condurre a rimettere le nostre responsabilità di fronte ai rischi che l'equilibrio mondiale sta correndo. E non dovrebbero indurre a far ciò nemmeno la Chiesa. Al cospetto dell'escalation del fondamentalismo e della violenza terroristica da esso ispirata la speranza resta che i principi di fondo della democrazia divengano sempre più contagiosi, utilizzando anche il veicolo del confronto tra le religioni. Solo in tal modo tra l'altro, fede e ragione potranno tornare a comunicare anche oltre i confini della cristianità mettendo a bando la violenza e il terrore, così come auspicato da Benedetto XVI.

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