December 31, 2006

Pulpiti usurpati

(Un post per quattro gatti)

L’anno sta per finire e sarebbe tempo di bilanci (naturalmente su un’infinità di questioni). Per chi avesse la voglia e il tempo di farli. Non avendo né questo né quella, ma riconoscendo che impegnarsi in un’impresa simile non sarebbe un esercizio inutile e di pura routine neppure per un blog, ricorro a un escamotage che mi consente di raccogliere in un certo senso la sfida, ma parlando di qualcosa che mi interessa veramente molto, e di cui da tempo avevo in mente di occuparmi.

Oltretutto, in questi giorni c’è così poca gente che legge i blogs—o almeno il qui presente—che penso di potermi permettere un’incursione in un settore generalmente poco frequentato dal “lettore medio.” L’esecuzione di Saddam Hussein, per dire, non c’entra niente. Anche perché non saprei proprio cosa dire, se non che il fatto di essere contrari alla pena di morte in generale non dovrebbe impedire di pensare che, in Paesi in cui questa è ammessa dalla Costituzione, oltre che dalla consuetudine, nessuno più dell’ex rais la meritasse: lui molto più di uno qualsiasi dei tanti grandi e piccoli criminali (veri o presunti) che ogni giorno, credo, vengono giustiziati nelle terre della Mezzaluna. E lo dico senza alcuna esultanza, ed anzi col rispetto che si deve alla morte di un essere umano, chiunque egli sia e qualunque cosa egli sia stato e abbia fatto.

E allora, eccomi al punto. C’entra la religione. C’entra il Natale appena celebrato. C’entrano, soprattutto, i celebranti. Tutto parte da una constatazione un po’ amara che, con impressionante regolarità, mi capita di fare ad ogni sacra ricorrenza: la noia e, per così dire, il “vuoto pneumatico” delle omelie che è dato ascoltare nelle nostre chiese. Parlo della città in cui vivo, che credo raggiunga vette vertiginose, ma anche, per citare un’esperienza recente (l’8 dicembre scorso), di Firenze—e al massimo livello possibile e immaginabile, messa solenne che di più non si può …, e ci siamo capiti, dico bene?

L’argomento è talmente serio, a mio avviso, che occorre fare uno sforzo per non cedere alla (fortissima) tentazione di ironizzare—l’ironia, come si sa, è spesso la valvola di sfogo di una rabbia che, se lasciata libera di esprimersi senza freni, provocherebbe disastri irrimediabili—o di lasciar prevalere l’anticlericale un po’ moralista e bacchettone che è in noi. La questione è talmente “decisiva” che, per essere affrontata a dovere, necessita di un’accurata “ermeneutica.” E allora mi affido ad alcune pagine che mi sono molto care. Del resto sono le stesse che, quasi ogni volta, mi tornano alla mente e fanno da contrappunto al senso di frustrazione che si impadronisce di me quando mi capita di seguire con una certa attenzione quelle voci che dal pulpito rimbalzano, amplificate (sfortunatamente) dalle moderne tecnologie acustiche, tra le navate, i transetti e le volte a capriate o a crociera di chiese fin troppo belle, antiche e misticamente concepite e realizzate da fior di architetti e superbe maestranze.

Le pagine sono quelle del Divinity School Address ("Discorso alla Facoltà di Teologia") che Ralph Waldo Emerson tenne nel 1838 ad Harvard. Agli studenti—futuri ministri del culto—Emerson espone il suo punto di vista sulla predicazione, che è essenzialmente un severo giudizio sullo standard del tempo (e chissà cosa gli passerebbe per la testa oggi come oggi …):

A questo santo ministero voi proponete di dedicare voi stessi. Vorrei che voi sentiste la vostra chiamata nelle vibrazioni del desiderio e della speranza. Questo ministero è il primo nel mondo. Appartiene a quella realtà che non sopporta d'essere diminuita da falsificazioni. Ed è mio compito dirvi che il bisogno di una nuova rivelazione non è mai stato più importante di adesso. Dalle opinioni che ho appena espresso, voi potrete ricavare la triste convinzione, che condivido e sostengo, con la maggioranza, dell'universale decadenza e quasi morte della fede nella società. L'anima non è al centro della predicazione. La Chiesa vacilla ormai prossima alla caduta, quasi tutta completamente priva di vita. In questa occasione, dichiarare con compiacimento a voi, la cui speranza e il cui impegno è di predicare la fede di Cristo, che la fede di Cristo è predicata, sarebbe criminale.
[I corsivi sono miei]

Più avanti così prosegue:

La prova della vera fede, certamente, deve essere il suo potere di affascinare e comandare l'anima, come le leggi della natura controllano l'attività delle mani, un potere così imponente che troviamo piacere e onore nell'obbedire. La fede dovrebbe unirsi con la luce dell'alba e del tramonto, con la nuvola che vola sulle ali del vento, con l'uccello che canta, e il profumo dei fiori. Ma ora il Sabato del sacerdote ha perduto lo splendore della natura; è sgradevole, siamo felici quando è finito, possiamo fare, facciamo molto meglio, in modo più santo e dolce, da soli, perfino seduti nei nostri banchi. Dovunque il pulpito è usurpato da un formalista, il fedele è defraudato e privo di consolazione. Ci ritiriamo appena le preghiere cominciano, preghiere che non ci sollevano, ma ci feriscono e offendono. Ci avvolgiamo ben stretti nei nostri mantelli, assicurandoci più che possibile una solitudine in cui non si ascolta più. Una volta ho ascoltato un predicatore di fronte al quale fui fortemente tentato di dire che non sarei più andato in chiesa. La gente, pensai, va in certi posti per abitudine, altrimenti nessuna anima sarebbe entrata nel tempio in quel pomeriggio. Una tempesta di neve stava cadendo intorno a noi. Quella tempesta era reale, il predicatore al suo confronto era puramente spettrale, e l'occhio avverti il triste contrasto guardandolo, e guardando poi fuori dalla finestra dietro di lui la bellissima meteora della neve. Egli era vissuto invano. Non aveva una sola parola che suggerisse il fatto che egli avesse riso o pianto, fosse sposato o innamorato, fosse stato apprezzato, o ingannato, o mortificato. Se anche egli avesse vissuto o operato, nessuno di noi avrebbe potuto ricavarne una maggior saggezza. Non aveva appreso il segreto capitale della sua professione, cioè saper convertire la vita in verità. Nessun fatto di tutta la sua esperienza personale era ancora entrato nella sua dottrina. Quell'uomo aveva arato e piantato e parlato e comprato e venduto; aveva letto libri; aveva mangiato e bevuto; la testa poteva dolere, il cuore battere; egli sorrideva e soffriva; eppure, nonostante tutto questo, in tutto il suo discorso non c'era un'indicazione, un accenno, che egli avesse mai vissuto. Non aveva tratto una sola riga dalla storia reale. Il vero predicatore può essere sempre riconosciuto dal fatto che manifesta la sua vita alla gente, la vita passata attraverso il fuoco del pensiero. Ma di quel cattivo predicatore non si poteva dire, dal sermone, in quale età del mondo egli fosse capitato a vivere; se avesse un padre o un figlio; se fosse proprietario o nullatenente, un cittadino o abitante della campagna o qualsiasi altro dato biografico.
[I corsivi sono sempre miei]

La preoccupazione di Emerson è radicale. Egli intravede dietro la decadenza della predicazione la crisi della religione stessa. E la conseguenza di questa crisi: una calamità per “la nazione.”

Quale calamità più grande può cadere su una nazione della perdita della religione? Se questo avviene tutto decade. Il genio abbandona il tempio per frequentare il senato o il mercato. La letteratura diventa frivola. La scienza è fredda. L'occhio della giovinezza non è illuminato dalla speranza di altri mondi, e l'età è priva di onore. La società vive per sprecare tempo in frivolezze, e quando gli uomini muoiono non ne parliamo.

Parole alquanto profetiche, si direbbe.

Io mi consolo, però, pensando che in un paesino delle prealpi venete, dove quelli che portano il mio cognome sono quasi la maggioranza relativa della popolazione, un anziano pretone dai modi semplici, che infarcisce con espressioni dialettali il suo dire, riesce sempre a riconciliarmi con la mia Chiesa. Non perdo mai una sola parola di quel che dice dal pulpito, e mi aspetto sempre che se ne esca con una storia nuova, un nuovo aneddoto, una riflessione terra-terra ma che ti scuote e ti rivolta la realtà come un calzino. Sembra che sia apprezzato anche nelle alte sfere, e infatti l’han fatto monsignore. Io l’avrei ascoltato volentieri a Santa Maria del Fiore, lo scorso 8 dicembre, ma non si può avere tutto dalla vita.

December 24, 2006

Adeste, Fideles



Adeste, fideles, laeti triumphantes;
Venite, venite in Bethlehem.
Natum videte Regem angelorum.


Deum de Deo, lumen de lumine,
Parturit virgo mater,
Deum verum, genitum, non factum.


En grege relicto, humiles ad cunas
Vocati pastores approperant:
Et nos ovanti gradu festinemus.


Stella duce, Magi Christum adorantes,
Aurum, thus, et myrrham dant munera.
Jesu infanti corda praebeamus.


Aeterni Parrentis splendorem aeternum
Velatum sub carne videbimus,
Deum infantem, pannis involutem.


Pro nobis egenum et foeno cubantem
Piis foveamus amplexibus;
Sic nos amantem quis non redamaret?


Perugino - Adorazione dei magi -  Città della Pieve, oratorio dei Bianchi

O come, all ye faithful, joyful and triumphant,
Come ye, O come ye, to Bethlehem.
Come and behold Him, born the King of angels;

True God of true God, Light from Light Eternal,
Lo, he shuns not the Virgin's womb;
Son of the Father, begotten, not created;

Sing, choirs of angels, sing in exultation;
Sing, all ye citizens of heaven above!
Glory to God, all glory in the highest;

See how the shepherds, summoned to His cradle,
Leaving their flocks, draw nigh to gaze;
We too will thither bend our joyful footsteps;

Child, for us sinners poor and in the manger,
We would embrace Thee, with love and awe;
Who would not love Thee, loving us so dearly?

Yea, Lord, we greet Thee, born this happy morning;
Jesus, to Thee be glory given;
Word of the Father, now in flesh appearing.

----


Buon Natale! Merry Christmas!
Joyeux Noël!
Frohe Weihnachten! Feliz Navidad!

December 22, 2006

***Tre stelle nel cuore -3

Prosegue sul Foglio di oggi la meritoria campagna d’informazione e sensibilizzazione sulla sorte degli studenti di Teheran che l’11 dicembre (non il 12, come erroneamente riportato) avevano osato contestare duramente il presidente ultra-conservatore Mahmoud Ahmadinejad. L’articolo—che accenna anche alla manifestazione di protesta di ieri, davanti all’ambasciata della Repubblica Islamica—fa un quadro non proprio incoraggiante per quanto riguarda la repressione che sarebbe in atto nel paese. Di positivo c’è, naturalmente, che stiamo parlando di una situazione in movimento: la rivolta ormai è scoppiata. Tra le notizie sulle iniziative internazionali a favore degli studenti, una curiosità: lo scherzetto da prete—un’autentica nemesi!—che dei giovani danesi hanno fatto ad Ahmadinejad, facendo pubblicare sul Teheran Times un certo messaggio apparentemente elogiativo …

Credo di fare cosa utile alla buona causa di cui si parla riproducendo per intero l’articolo qui di seguito. Sulla stampa internazionale, inoltre, segnalo gli articoli di The Telegraph (già citato qui nei giorni scorsi), The Guardian, The New York Times e della BBC.

In Iran è iniziata la caccia allo studente, dopo le manifestazioni e gli scontri all’Università Amir Kabir di Teheran durante la visita del 12 dicembre di Mahmoud Ahmadinejad. Le milizie del regime dei mullah hanno cominciato a setacciare i dormitori universitari per scovare e arrestare chi ha bruciato ritratti del presidente, chi ha lanciato una scarpa contro di lui e chi ha gridato “morte al tiranno”. Il ventunenne che mostrava un cartello contro il “presidente fascista” è fuggito nella clandestinità dopo essersi scontrato con due vigilantes di quartiere che lo hanno minacciato di “tirare fuori il padre dalla tomba. E’ in grave pericolo”, come ha detto al Guardian uno studente. Alcuni suoi compagni sono scomparsi e si teme siano finiti nella camera della tortura della prigione di Evin. Con le ronde delle milizie bassiji nei campus, altri studenti si preparano alla clandestinità, perché le autorità “reagiranno molto più duramente di prima – ha spiegato uno dei leader, Armin Salmasi – Il movimento studentesco sta per tornare sotterraneo, come prima della rivoluzione”. Ieri sera a Roma, davanti all’ambasciata iraniana, si è tenuta la manifestazione organizzata da molte associazioni giovanili italiane: “Dove sono finiti?”, era lo slogan. Lunedì, trecento esponenti della comunità ebraica britannica e di altre organizzazioni di ragazzi hanno partecipato a una veglia davanti alla sede diplomatica di Teheran a Londra. La comunità ebraica canadese si è riunita ieri a Toronto per “la verità, la luce e la libertà”. Alcuni studenti d’arte danesi burloni hanno comprato una pagina pubblicitaria del Teheran Times, pubblicando – sotto il ritratto di Ahmadinejad – una lista di slogan apparentemente favorevoli al presidente, come “sostenete la sua lotta contro Bush” e “l’Iran ha diritto di produrre energia nucleare”. Scorrendo in verticale le prime lettere di ciascuna frase, gli iraniani hanno potuto leggere: “M-a-i-a-l-e”. “Abbiamo preso in giro Ahmadinejad perché non pensiamo sia molto liberale e sensibile”, ha spiegato Jan Egesborg del gruppo artistico Surrend. I mullah hanno dato inizio all’opera di demonizzazione degli studenti. Il vicepresidente del Parlamento, Mohammad Reza Bahonar, ha accusato i manifestanti di essere “promotori di sesso e alcol”. Le intimidazioni – ha risposto Ali Azizi, vicesegretario dell’assemblea degli studenti della Amir Kabir – non riusciranno “a smorzare la protesta contro il governo e i suoi sostenitori”. Dopo la purga delle università – più di cento professori liberali costretti al pensionamento, 70 studenti sospesi, due arrestati e 181 ammoniti per attività politiche, decine di pubblicazioni e associazioni chiuse – il movimento si è risvegliato dal lungo sonno. Quando il nuovo rettore della Amir Kabir, l’ayatollah Amid Zanjani, ha compiuto la prima visita in facoltà, gli universitari gli hanno strappato il turbante. Il 6 dicembre migliaia di studenti gli hanno ribadito che “questo non è un seminario religioso, ma un’università”. Secondo l’ex leader Alireza Siassirad, “gli studenti sono definitivamente tornati attivi e il segnale è molto pericoloso” per il regime. Le manifestazioni sono pianificate, coordinate e non si limitano alla capitale: lo stesso 12 dicembre, all’Università di Shiraz, gli studenti hanno fischiato e interrotto il ministro dell’Interno, Mostafa Pour Mohammadi, che elogiava la convocazione di cinquanta dei loro da parte dei consigli di disciplina delle milizie. Gli studenti potrebbero catalizzare lo scontento sociale per il regime dei mullah, ma lamentano la poca attenzione della comunità internazionale impegnata – senza risultati – nella questione nucleare. Nel frattempo, i cristiani iraniani subiscono la loro repressione natalizia. Secondo il Comitato di sostegno ai diritti umani in Iran, gli agenti della Vevak – il ministero delle Informazioni e della Sicurezza dei mullah – hanno arrestato numerosi cristiani di Teheran, Karadj e Racht, confiscato libri religiosi e immagini pie e vietato le cerimonie per la natività. L’obiettivo è ottenere l’abiura della fede.

December 21, 2006

***Tre stelle nel cuore - 2

Roma, giovedì 21 dicembre, davanti all'Ambasciata dell'Iran, ore 20: manifestazione  a sostegno degli studenti di Teheran

Ancora sull’Iran, ancora sul Foglio, ancora sulla manifestazione pro-studenti di stasera, davanti all’ambasciata iraniana (via Nomentana, angolo via Santa Costanza, Roma, ore 20). Giustamente si fa osservare questa semplice e triste verità:

L’Iran fa paura, ma la paura degli iraniani non fa notizia. Il sismografo dell’indignazione internazionale resta fermo quando si tratta delle tragedie pubbliche e private degli iraniani. In sessanta minuti d’intervista ad Ahmadinejad, Mike Wallace non ha ritenuto opportuno incalzare il presidente sulla repressione nei confronti dei concittadini, lo scorso agosto. Eppure più di 2,5 milioni di iraniani dal ’79 a oggi sono finiti in prigione per reati politici. Molti non ne sono usciti. Sono monarchici, liberali e comunisti, intellettuali, studenti, professori, operai, teologi e mistici sufi. Da giugno nelle università ci sono stati 136 sit-in di protesta contro le epurazioni del regime. Il 12 dicembre un gruppo di studenti del politecnico Amir Kabir ha sfidato il presidente Ahmadinejad.

Un’altra semplice verità: in Iran non protestano solo gli studenti. Infatti:

Poco più di un anno fa uno sciopero dei conducenti d’autobus di Teheran ha paralizzato la capitale: inneggiavano contro l’oppressione. A marzo e a giugno si sono riuniti nei parchi di Teheran gruppi di donne a invocare “azadi”, libertà, inseguite e percosse da vigilantes in borghese che hanno colpito nel mucchio senza fermarsi, neanche dinnanzi all’età avanzata della poetessa Simin Behbehani. Il primo maggio un gruppo di lavoratori iraniani ha ridicolizzato la manifestazione ufficiale. Le voci dei paramilitari bassiji sono state sopraffatte da grida più forti. “Scioperare è un nostro diritto inalienabile”, hanno urlato facendo il verso ai cartelli sull’inalienabile diritto al nucleare. Ad agosto sono insorti gli agricoltori di Amol, a settembre ii minatori e gli
operai dell’industria tessile di Kashan. Sui loro manifesti c’era scritto: “Vergogna! Protestate per i diritti negati dei palestinesi e poi uccidete gli iraniani”.

Certamente, se parecchi laggiù dovrebbero vergognarsi, dalle nostre parti si suppone che debbano fischiare le orecchie a più d’uno. In genere, siamo tanto disamorati del privilegio di vivere in Paesi liberi che il coraggio e l’abnegazione di chi si batte per essere come noi—pur con tutte le nostre imperfezioni—non ci “commuove” minimamente, anzi, ci lascia perfettamente indifferenti, oppure scettici, o annoiati. “In genere,” però, perché qualcuno che nel quadretto non si riconosce, che non ci sta, è rimasto. E presumibilmente sarà sotto l’ambasciata dell’Iran stasera. In persona o in spirito. Le stelle si vedono quando è buio.

December 20, 2006

*** Tre stelle nel cuore

Roma, giovedì 21 dicembre, davanti all'Ambasciata dell'Iran, ore 20: manifestazione  a sostegno degli studenti di Teheran
E Il Foglio, giustamente, insiste sull’Iran, sui ragazzi che all’Amir Kabir, l’11 dicembre scorso, inscenarono una clamorosa manifestazione di protesta contro “il tiranno” Ahmadinejad. Che ne è stato, cosa ne sarà di quei giovani eroi? Possiamo noi, nell’Occidente libero e democratico, disinteressarci della loro sorte? Certo che no. La manifestazione indetta per domani sera, a Roma, davanti all’ambasciata iraniana (via Nomentana, angolo via Costanza, alle otto), si prefigge proprio di “non far sentire soli i giovani di Teheran.” Come un anno fa, Il Foglio si schiera, scende in piazza, protesta contro il tiranno. Con un soffio di poesia:



Da tre giorni M. non ha notizie di sua figlia. S. non ha partecipato alla protesta all’Amir Kabir, ma è considerata una nemica del regime. Parla come non dovrebbe parlare una timorata figlia della Rivoluzione. “Le ho chiesto di smetterla – dice M. – le ho detto che loro sono più forti di noi. S. mi ha risposto che la paura mi ha accecato i sensi, dice che il paese è vivo come il Simorgh”. E’ una magia degli iraniani trovare nell’ora dell’inquietudine, quando la ragione consiglia la fuga e il conformismo il silenzio, un posto alla poesia. Nel poema di Attar uno stormo di uccelli parte alla ricerca del mitico Simorgh. Soltanto trenta arriveranno a destinazione e allora si renderanno conto di essere essi stessi il Simorgh. I ragazzi che protestano sono già un altro Iran possibile, come il Simorgh.


Daniele Capezzone, intanto, propone ai bloggers di indossare o esporre sui blogs le famigerate tre stelle, quelle di cui ho riferito qui. E per una volta mi capita di essere d’accordo con lui—ancora non riesco a crederci, ma è proprio così ...


UPDATE 21/12/2006
Il banner "arigianale" che ho inserito all'inizio del post è a disposizione di chi desidera mostrarlo sul proprio blog.



Iran, i giovani, i bloggers

Livio Caputo su Il Giornale di oggi:

Se la sorprendente affermazione dell’alleanza moderati-riformisti nelle elezioni iraniane di venerdì scorso troverà conferma nei risultati ufficiali, buona parte del merito andrà ai giovani, che al contrario di quanto avvenne lo scorso anno hanno si sono recati in gran numero alle urne, portando la partecipazione a oltre il 60%.
[…].
Sul ruolo fondamentale che i giovani, e in modo particolare gli studenti universitari, hanno avuto in questa evoluzione non ci sono dubbi. Appena la scorsa settimana, un gruppo di loro ha osato contestare apertamente, con grida di «Via il tiranno», il presidente Ahmadinejad, sfidando il potere, i pasdaran e la polizia religiosa con la determinazione di chi è convinto che, se anche nell’immediato sarà perseguitato, il tempo è dalla sua parte. Ma il contributo maggiore alla sorpresa elettorale è sicuramente arrivato dai circa centomila blogger attivi nel Paese, che hanno reso in breve il farsi la decima lingua più usata sul web. Questi operatori sono riusciti a sostituirsi surrettiziamente alla stampa indipendente, in gran parte soppressa dagli ayatollah, e a tenere viva la fiamma dell’opposizione presso gli oltre 7 milioni di fruitori di internet (su una popolazione di 70 milioni). Ogni tanto le autorità chiudono qualche blog e ne processano i titolari, ma la massa riesce a sfuggire alla censura in un continuo ricorso a nuovi trucchi. Secondo molti osservatori, proprio il massiccio ricorso ai blog ha impresso un’autentica svolta all’opinione pubblica, e con le sue critiche sempre più pungenti al regime, ha spinto molti oppositori a recarsi alle urne.[Leggi il resto]


Qualche informazione sui blogs iraniani si può trovare qui, mentre qui si può consultare una directory dei blogs in inglese scritti da iraniani residenti in Iran o sparsi per il mondo.

December 19, 2006

Aggiornamenti sull'Iran

1) Roma, giovedì 21 dicembre, ore 20, manifestazione bipartisan a sostegno degli studenti di Teheran (v. post precedenti). Davanti all'ambasciata iraniana, via Nometana 361. Segnalata dal Foglio del 14 dicembre (e ricordata ieri dal blog La Pulce di Voltaire).

Comitato promotore:

Forza Italia giovani, Sinistra giovanile, Azione giovani, Giovani della Margherita, Federazione dei giovani socialisti, Giovani Italia dei Valori, Giovani Verdi, Giovani dell’Udeur, Partito radicale transnazionale, Forum nazionale dei giovani, Giovani delle Acli, Federazione universitaria dei cattolici italiani, Unione degli studenti, Unione degli universitari, Movimento studenti cattolici, Azione universitaria, Associazione giovanile studenti iraniani, Generazione U, Giovani Musulmani d'Italia, Unione giovani ebrei d'Italia Per adesioni di singoli e associazioni: teheran2007@libero.it


2) Sul sito dell’Associazione Donne Iraniane si legge questo comunicato del Consiglio nazionale della resistenza iraniana:

CNRI - il 10 dicembre, agenti del ministero delle informazioni e della sicurezza dei mullah (VEVAK) hanno fermato molti cristiani iraniani a Teheran, Karadj e Rasht.La VEVAK fa pressione su di loro perché abiurino la loro fede durante le feste di Natale e di fine d'anno.Le forze repressive hanno attaccato i loro domicili ed hanno confiscato i loro libri religiosi, il loro CD e le loro immagini sacre.

A seguito degli arresti nella città di Rasht, al nord del paese, i genitori dei prigionieri cristiani si sono raccolti dinanzi al tribunale della città per chiedere informazioni.Gli agenti del VEVAK hanno reagito insultandoli e gli hanno arrestati .Sono stati minacciati.Alla vigilia Di Natale, i cristiani iraniani si sono visti proibire di tenere cerimonie religiose e misure repressive sono in gran parte applicata nel paese.

La resistenza iraniana chiama tutte le organizzazioni di difesa dei diritti dell'uomo ed il relatore dell'ONU per la libertà religiosa di condannare questi atti disumani della dittatura religiosa contro i cristiani ed adottare misure immediate per liberare tutti i prigionieri.

Segretariato del Consiglio nazionale
della resistenza iraniana

December 18, 2006

'Le stelle si vedono quando fa buio'

Le notizie dall’Iran si susseguono in rapida successione, in queste ore. Di una di queste—la peggiore, senza dubbio—ho già parlato nel post precedente in inglese, ma c’è qualcosa anche in italiano, grazie al Corriere, che salva la faccia della stampa italiana. Si tratta del nuovo sistema di classificazione “a stelle” adottato dalle autorità accademiche della prestigiosa università Amir Kabir di Teheran. Un sistema ideato per “premiare” gli studenti ribelli “marchiandoli” con una, due o tre stelle, a seconda del loro livello di inaffidabilità politica, naturalmente dal punto di vista del governo.

A quanto pare all’origine della inaspettata manifestazione di protesta di una settimana fa contro Ahmadinejad c’era proprio questa tristissima novità. Non a caso tra i cartelloni di protesta ce n’era uno che recava scritto «le stelle si vedono quando fa buio». Gli studenti “premiati,” comunque, come informa The Telegraph, esibiscono con fierezza il loro “marchio” e hanno colto immediatamente il nesso con il sistema adottato dai nazisti con gli ebrei durante la seconda guerra mondiale. Quando Bertolt Brecht ha scritto “sfortunato quel popolo che ha bisogno di eroi,” ha colto perfettamente e ante litteram la situazione attuale dell’Iran. Il minimo che possiamo fare, dalle nostre parti, è rendere omaggio agli eroi parlandone. Auguri ragazzi, con tutto il cuore.

La seconda notizia—che non ci fa né caldo né freddo (parlo per me)—è che d’ora in poi l’Iran calcolerà le proprie entrate, comprese quelle derivanti dalle vendite di greggio, in euro e non più in dollari.

La terza—la migliore: finalmente una buona nuova!—è che si sta profilando una sonora sconfitta elettorale per gli ultra-conservatori del presidente iraniano Ahmadinejad. Ottimo a tal riguardo il resoconto di Asia News:

Il voto riguardava comuni, alcuni deputati e l’Assemblea degli Esperti. Quest’ultima era l’elezione principale. Solo i musulmani potevano votare per eleggere 86 mullah, gli “Esperti” (eletti per 8 anni, hanno il potere di scegliere o magari destituire la Guida Suprema). In alcune circoscrizioni, la preselezione drastica dei candidati fatta dal “Consiglio dei Guardiani” non ha lasciato nessuna scelta agli elettori: tante sedie, tanti candidati. Però, la partecipazione è stata assai alta: 62 %, una cifra che provoca dichiarazioni liriche da parte d’Ahmadinejad (“gloriosa epopea”, “vittoria del popolo”,
“neutralizzati i cospiratori occidentali”). Mohammad-Ali Hosseini, portavoce del
Ministero degli Affari esteri, ha pure affermato che questa cifra significa l’appoggio del popolo all’attuale politica estera dell’Iran!
[Leggi il resto]

Tech Tags:

Yet another 'star rating' system

Do you remember the demonstration staged by Iranian students one week ago, on Monday, December 11, against President Mahmamoud Ahmadinejad? Yes, when they lightened a firecracker and burned the head of state's photograph calling him a dictator as he himself was speaking at Amir Kabir Technical University in Tehran. Well, as a result, about seventy students have been “awarded” through the new "star rating" system which has been recently adopted by University authorities for politically-active students. However, as The Telegraph reported,

the star system has become a badge of honour among those who have acquired them on their records. Students have likened it to the German Nazi-era practice of making Jews wear the Star of David.


Read the rest to learn more.

This while early returns are showing hard-line President Mahmoud Ahmadinejad's conservative opponents leading in elections for local councils, and former Iranian president Hashemi Rafsanjani is leading the race for a seat on a powerful clerical body.

Tech Tags:

December 17, 2006

Decalogo

Ho scelto dieci frasi celebri per compilare un decalogo politico. Le ho scovate, in mezzo a molte altre, in un nuovissimo sito, fornito anche di blog, che si segnala come molto promettente—occhio ai Padri Fondatori—e la cui url auspico sia aggiunta ai bookmarks e ai blogrolls dei lettori di wrh. (Che poi si tratti anche del sito che ospita e promuove il Manifesto dei volenterosi, diciamolo, è qualcosa che non depone certo a sfavore ...)

Decalogo

> Ci sono uomini che cambiano idea per amore del loro partito, altri che cambiano partito per amore delle proprie idee.
WINSTON CHURCHILL

> Un politico guarda alle prossime elezioni. Uno statista guarda alla prossima generazione.
ALCIDE DE GASPERI

> Gli ideali sopravvivono attraverso il cambiamento. Muoiono con l'inerzia di fronte alla sfida.
> A volte è meglio perdere e fare la cosa giusta che vincere facendo quella sbagliata.
TONY BLAIR

> La maggior parte delle parole comunemente adoperate (dagli uomini politici) sono sovratutto notabili per la mancanza di contenuto. Ciò è probabilmente la ragione del loro successo; essendo legittimo il sospetto che le parole più divulgate siano state consaputamente o inavvertitamente scelte appunto perché esse sono adattabili a qualsiasi azione il politico deliberi poscia intraprendere, quando abbia acquistato il potere.
LUIGI EINAUDI

> Analizzando ogni giorno tutte le idee, ho capito che spesso tutti sono convinti che una cosa sia impossibile, finché arriva uno sprovveduto che non lo sa e la realizza.
ALBERT EINSTEIN

> Con poche lodevoli eccezioni, gli imprenditori sono a favore del libero mercato in generale ma sono contrari quando li riguarda.
> I governi non imparano mai. Solo le persone imparano.
MILTON FRIEDMAN

> Prevedo un futuro felice per gli americani se impediranno al governo di sprecare i soldi frutto del loro lavoro, con la scusa di occuparsi di loro.
THOMAS JEFFERSON

> Lo stato è una male necessario: i suoi poteri non devono essere moltiplicati oltre necessità. Si potrebbe definire questo principio il rasoio liberale.
KARL POPPER

Tech Tags:

December 13, 2006

Un giusto 'metodo' sul caso Welby

A mio modo di vedere, leggendo ciò che si scrive sul caso Welby, da quando è esploso con tutta la sua drammaticità e con lo strascico di angoscia e di pietà umana che la vicenda si porta appresso, uno finisce quasi inevitabilmente per pensare che la bioetica stia diventando (o sia già diventata) un incubo. A meno che, naturalmente, non si ritenga che quella complessa disciplina—che poi è più che altro un approccio interdisciplinare alle problematiche di cui si occupa—debba piuttosto diventare, o sia già diventata, una specie di campo di battaglia. Personalmente considero del tutto errato, e sostanzialmente insano, pensarla in questa maniera, ma non si può negare che, alla luce di ciò che emerge dal dibattito in corso, si corra seriamente il rischio di essere sospinti verso questa deprecabile deriva.

Ecco perché, quando da qualche parte si leva una voce più moderata nei toni, più pensosa e, diciamo, “dubbiosa,” cioè non appesantita da dogmatismi di varia provenienza, per non parlare degli schematismi e delle semplificazioni di comodo, ci si sente un po’ più a proprio agio, esseri umani tra esseri umani, cioè gente che non ha, per così dire, la verità in tasca e si barcamena con infinita umiltà tra incertezze e dubbi angosciosi.

Oggi, per dire, si offrono alla lettura due contributi al dibattito che meritano, a mio avviso, di essere portati ad esempio di come bisognerebbe—e di come evidentemente è possibile—affrontare il caso Welby. Si tratta di due riflessioni che non approdano alle stesse conclusioni, anche perché una proviene dalla gerarchia cattolica e l’altra dal campo laico: quella del cardinale Esilio Tonini (intervista a Repubblica, che riproduco qui sotto non essendo disponibile se non a pagamento e per gli abbonati) e quella della bioeticista dell'Università di Genova Luisella Battaglia, che è anche membro del nuovo Comitato nazionale per la bioetica.

Nell’impostazione del breve scritto di Luisella Battaglia è pressoché assente qualsiasi condizionamento di tipo “ideologico.” La studiosa parte dall'articolo 5 della Convenzione di Oviedo sui diritti dell'uomo e la biomedicina (1997), ratificata dal Parlamento nel 2001:

«Nessun intervento in campo sanitario può essere effettuato se non dopo che la persona cui esso è diretto abbia dato un consenso libero e informato. (...) La persona cui è diretto l'intervento può, in ogni momento, ritirare liberamente il proprio consenso».


Quindi richiama l'articolo 32 della Costituzione, che viene “rielaborato” come segue:


Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento. Nessuno può essere sottoposto a una cura che rifiuti.

(In realtà l’articolo dice che «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.» Il che, mi sembra, rende le cose un po’ più complicate …)

Su un piano estremamente concreto, la Battaglia richiama due casi assai significativi:

a) quello della signora che rifiutò l'amputazione della gamba, scelta che, come era chiaro fin dal principio, l'avrebbe portata inevitabilmente alla morte, e così fu infatti. “Nessuno l'ha potuto impedire, come nessuno—ricorda ancora la studiosa—può impedire a un testimone di Geova di rifiutare le trasfusioni di sangue;”
b) quello di Giovanni Paolo II, che rifiutò il secondo ricovero al Gemelli e chiese di poter «tornare alla casa del Padre». “Anche Welby—osserva la Battaglia—vuole tornare a casa.”

Ed ecco il cuore del ragionamento di Luisella Battaglia:

Dovremmo chiederci perché sia così difficile, nel nostro Paese, ottenere il rispetto dei diritti fondamentali delle persone. Negando il diritto di Welby all'autodeterminazione, si è di fatto restaurato un vecchio paternalismo medico che, con il pretesto della cura compassionevole, pretende di imporre la sua idea di "bene" in conflitto con quella del singolo individuo. "Prendersi cura" non significa sempre e solo tenere in vita a ogni costo, ma assumersi talora la responsabilità condivisa di accompagnare la vita al suo naturale compimento. Si confrontano due visioni del medico: l'una "bellicista", che lo vede come un generale alla guida di un esercito in guerra contro la malattia; l'altra, riconciliata con l'immagine tradizionale, che lo vede anche come quel "nuncius mortis" che accompagna amorevolmente al trapasso, accettandone l'inevitabilità.
[Il corsivo è mio]

Ebbene, anche se personalmente, in linea di principio, sono fermamente contrario all’eutanasia, devo dire che l’approccio della studiosa genovese mi dà molto a pensare. Anche perché, onestamente, non mi sembra—ma può darsi che io mi sbagli, per carità—che la decisione da prendere sul caso Welby abbia molto a che fare con l’eutanasia.

La riflessione del cardinal Tonini è altrettanto pacata, ma, almeno in un certo senso, più “dialogante,” e perfino più “dubbiosa,” intrisa di umana compassione e comprensione. E’ una delle più toccanti interviste che mi sia mai capitato di leggere. Non certo solo per questo, ma sicuramente anche per questo, il ragionamento dell’Arcivescovo emerito di Ravenna, e, direi, soprattutto il metodo, cioè il suo approccio alla questione etico-giuridica e al dramma umano di Piergiorgio Welby, mi sembra assai persuasivo. In una parola, mi ci riconosco in pieno, a cominciare dalle prime parole pronunciate da monsignor Tonini:

«Vorrei andarlo a trovare, stargli vicino, ricordandogli la preziosità della sua vita e condividendo la sua pena. E´ una questione di una difficoltà estrema e la cosa più complicata è passare dal piano dei principi alla situazione concreta e alle decisioni su cui ci si interroga».


Il resto dell’intervista non è da meno. Lo affido "fiducioso" alla riflessione di ciascuno:

«Vorrei andarlo a trovare, stargli vicino, ricordandogli la preziosità della sua vita e condividendo la sua pena». Il cardinale Ersilio Tonini risponde con un moto umano a chi gli domanda un giudizio sul caso Welby. «E´ una questione di una difficoltà estrema - spiega - e la cosa più complicata è passare dal piano dei principi alla situazione concreta e alle decisioni su cui ci si interroga».

Cardinale Tonini, c´è un uomo che chiede che non gli venga prolungata artificialmente una vita, fatta solo di sofferenza.

«Mi viene da dire che se qualcuno esprime il desiderio di affrettare la fine della propria pena, non è peccato. Anzi, può essere anche un desiderio sano. Però...». Però?«C´è un principio a cui non possiamo sfuggire. La vita è un dono, è sacra, è intangibile. Lo riconoscono praticamente tutti, non solo i credenti, anche non
credenti come Kant».

Perché cita il filosofo tedesco?

«Kant afferma che il suicidio è una cosa spaventosa, perché persino un albero percosso o una bestia ferita hanno l´impulso alla conservazione. Chi arriva a pensare di poter disporre della vita propria finisce per credere di disporre delle vite altrui. Così l´uomo da fine viene ridotto a strumento».

Eminenza, la Chiesa ha già maturato una posizione avanzata: rifiuto dell´eutanasia, ma anche rifiuto dell´accanimento terapeutico. Con l´appello di Welby camminiamo su un crinale, dove emerge la richiesta di non essere condannati ad una vita che non esisterebbe se non fosse per una macchina.

«La questione va studiata approfonditamente. E´ chiaro che l´accanimento non è ammesso e d´altra parte non è ammessa l´interruzione di una vita. Non penso solo alla dottrina cattolica, mi rifaccio alle legge italiana sui trapianti, estremamente rigorosa nelle procedure di espianto: per impedire che per salvare una vita se ne sacrifichi un´altra».

Che c´entra la legge sui trapianti?

«Per sottolineare che bisogna stare attentissimi nel prevedere le motivazioni di una decisione. Se noi legittimiamo l´interruzione di una vita con motivazioni, che non siano molto ponderate, rischiamo di aprire la strada a precedenti giuridici pericolosi».

La Procura di Roma ha stabilito che il paziente ha il diritto di interrompere il trattamento non voluto, ma contemporaneamente non si può ordinare al medico di non ripristinarlo se lo ritiene necessario.

«Esattamente. Qui entra in gioco il dovere professionale basato sul giuramento di Ippocrate. Il medico non può diventare a suo volta uno strumento, se ritiene che vi sia una speranza. Ma non mi nascondo nemmeno che qui siamo in presenza di una vera e propria tensione all´interno del sistema giuridico».

Un dilemma?

«Tra il popolo vi è una diffusissima contrarietà all´eutanasia. Eppure quando si passa dal piano dei principi al giudizio su un caso concreto, quando va detto un sì o un no, riconosco la difficoltà di definire confini precisi. Tanti medici sanno che arriva il momento in cui la medicina è perfettamente inutile, però non rinuncerebbero a dare da bere al paziente o a farlo respirare».

Se lei lo avesse di fronte?

«Io Welby lo capisco, ma prima di agire bisogna pensarci dieci volte. Potrei essere tormentato per sempre, pensando di essere stato io a togliergli la vita. Lo sa che lui mi ha scritto?».

Welby le ha mandato una lettera?

«Anni fa. Rispose ad un mio articolo, dissentiva, ma la sua lettera aveva un tono un po´ scherzoso. Sento ancora l´eco di una sua ironia gioiosa, il gusto di discutere insieme. Perciò provo un disagio infinito di fronte alla vicenda. Ho ancora dinanzi a me quel suo modo di esprimersi sereno e vivace».


Problemi con Internet?

Su Repubblica qualche consiglio per chi ha problemi con Internet (e con l'adsl) in questi giorni. Devo ancora metterli in pratica, anche se, almeno finora—a parte qualche episodio isolato risolto col “ripristino” della configurazione—, non sono stato coinvolto in maniera drammatica dal malware, spyware e adware che stanno mettendo in ginocchio la rete. In ogni caso, penso valga la pena di provare.

December 12, 2006

Morte al tiranno!

La notizia è di quelle che non scorrono via come acqua fresca—magari anche un po’ sporca—e subito le puoi archiviare come l’eterno deja vu. Che l’Uomo di Teheran sia stato preso a male parole da un gruppetto di studenti non è esattamente come l'oltraggio subito in quel di Bologna dal suo, per così dire, omologo di Roma. Vittima, il primo, di qualche sconsiderato, ma invero coraggiosissimo, giovanotto (sostenuto da giovinette non manco ardite e sprezzanti del pericolo). E vittima, il secondo, più del destino cinico e baro che gli ha comandato di governare un popolo di malati di mente—per ripetere, addolcendolo, il suo severo e inappellabile giudizio—che dell’ignoranza e della protervia di qualche decina di imberbi studentelli. Ed entrambi, s’intende, uomini d’onore e degni del massimo rispetto, ancorché, dei due, l’uno sia quel che si dice un Gengis Khan redivivo, per quanto sa essere terribile nell’ira e nell’odio dell’inimico, e l’altro, più modestamente, un Balanzone che non metterebbe paura neppure travisato da Dracula il Vampiro (cui pur si compiace di fare il verso in tempo di Finanziaria, a voler dirla tutta).

Ma lasciando da parte tutte le differenze e le somiglianze tra i due infausti episodi—cui solo il Caso ha voluto malignamente conferire una contiguità temporale—e concentrando com’è giusto e sacrosanto la nostra attenzione sull’Uomo di Teheran, non si può non sottolineare con forza la magnifica reazione dell’illustre Offeso, il quale, rispondendo all’infame auspicio di quella plebaglia scatenata («Morte al tiranno!», purtroppo …), ha fatto notare che «la minoranza che sostiene che non ci sia libertà di parola sta impedendo alla maggioranza di sentire il mio discorso». Quanta signorilità! E quale acutezza, quale sfoggio di politcal correctness! Un vero peccato, tuttavia, che l’agenzia di stampa ufficiale iraniana, Irna, non abbia menzionato la protesta e che la tv di Stato abbia bensì dato notizia del discorso del presidente, ma senza riferire della contestazione (le uniche informazioni disponibili sono arrivate dalla semi-ufficiale agenzia Fars). Davvero indegna di questo grande Leader la meschineria perpetrata dalle servili agenzie d’informazione ufficiali! Possiamo ben immaginare lo sdegno del Capo Supremo quando (e se) scoprirà l'improvvida omissione ...

Ma, attenzione, la rispostina di cui sopra non è ancora niente, infatti il “tiranno”—è chiaro a tutti l'affetto con il quale uso il termine, al limite del paradosso!—ha aggiunto quest’altra perla di saggezza politica: «Per anni abbiamo combattuto contro la dittatura (dell'ex Scià, ndr) e per i prossimi mille anni nessuno potrà costituire una dittatura in Iran, nemmeno in nome della libertà». Già, perché le dittature, quelle vere, si mettono su «in nome della libertà», mica del fanatismo religioso, della lotta di classe di stampo marx-leninista, dell’antisemitismo, del razzismo in genere e di simili, volgari imitazioni dell’unico e vero Modello! No, amici, compatrioti, cittadini delle democrazie plutocratiche dell’Occidente, la sola e autentica tirannia è quella che si nasconde dietro il paravento della vostra libertà, anzi, è la libertà medesima! Parole indimenticabili. E, per favore, non andate alla ricerca del solito pelo nell’uovo domandandovi come si concili questa affermazione con la precedente, cosa ci azzecchi, cioè, l’equiparazione tra libertà e dittatura con la rivendicazione da parte del Presidente della (propria) libertà di parola. Davvero, credetemi, se non l’avete capito, non avete capito niente.

Lasciate, dunque, a chi invece ritiene di aver capito qualcosa, gridare alto e forte, qui ed ora, all’unisono con gli studenti dell'università Amir Kabirdi di Teheran, il mio personale e convinto
«Morte al tiranno!», nella speranza che diventi il grido di un’intera nazione, e se possibile dell’universo mondo. E, mi raccomando, capite bene a cosa e a chi alludo con il funesto auspicio ...

December 7, 2006

Aggiornamenti sul Papa (e Bush)

Solo un rapido aggiornamento sul viaggio del Papa in Turchia. Per tutte, questa Ansa sulle dichiarazioni all'udienza generale davanti a migliaia di pellegrini: ricordate le principali tappe del pellegrinaggio e il loro significato.

Segnalo, inoltre, su Foglie d'Erba, un articolo di Jeff Israely, scritto per Time Magazine e ripubblicato ieri in traduzione italiana sul Foglio. Oggetto: il rapporto Occidente-Islam e l'approccio di George W. Bush e di Benedetto XVI messi a confronto. Ottima lettura per il week-end. Ci risentiamo lunedì.

December 6, 2006

Da qui all'eternità

John Bolton è fuori, e giustamente, credo, Andrea Mancia commenta che questa è “la vera sconfitta di Bush.” Bolton, come ricordava Christian Rocca sul Foglio nel marzo 2005, è stato vicepresidente dell'American Enterprise, vale a dire il pensatoio che ha elaborato le politiche che sono state in seguito attuate (bene o male è un altro discorso) da George W., ma secondo Bill Kristol non sarebbe un neocon, ma piuttosto “un uomo di Dick Cheney." E tuttavia, come si diceva una volta, non v’è chi non veda che oggi, se Bush piange, i neoconservatives non ridono. Su questo, mi pare, non ci piove. Semmai—come notava ieri (ancora una volta, e sempre sul Foglio) Christian Rocca—sono i libertarians a ridere di cuore.

Personalmente, non ho alcuna intenzione di “prendere posizione,” anche perché, come ho già avuto modo di dire una volta, applicare schemi americani all’Italia è fuorviante. Tuttavia, vorrei spezzare una lancia per gli “sconfitti” (con o senza virgolette), sì, proprio oggi che sembrano essere caduti in disgrazia. E lo faccio non con ragionamenti originali ma con un paio di citazioni. Del resto, come qualcuno, qualche volta, ha osservato, nulla di ciò che si dice, si scrive e si argomenta è mai qualcosa di veramente «nuovo». Non solo, direi che la citazione va intesa sub specie aeternitatis—il che spiega, tra l’altro, il titolo del post, che non è soltanto un omaggio ad un magnifico film del tempo che fu …


L’esperimento americano non potrà sopravvivere in una situazione nella quale le sue élite culturali ostentano ciò che in molti tra i neoconservatori chiamano il “nichilismo ludico”, una sorta di calcolata indifferenza morale mista ad un profondo cinismo politico che si sposa ad un deliberato edonismo che consuma tutta l’esistenza umana nell’esperienza terrena. In gioco, ritengono i neoconservatori, ci sarebbe niente meno che la stessa legittimazione morale dell’ordinamento costituzionale americano e, in modo inquietante, I. Kristol, in un articolo del 1995 apparso su «The Public Interest», paventava persino l’inevitabilità di una reazione a tale nichilismo ludico ed edonismo cinico che sarebbe culminata in qualche forma di “aggressivo risveglio religioso”.
[Flavio Felice, Neocon e teocon, p. 109]

I Padri fondatori della Nazione americana e gli estensori della Costituzione degli Stati Unti non hanno inteso dar vita ad un esperimento di “nuda piazza pubblica”, nella quale i temi relativi alla rilevanza politica dei principi morali e religiosi fossero espulsi dalla vita pubblica. La Corte Suprema dovrebbe riconoscere che il Primo Emendamento fu pensato per creare le condizioni giuridiche e morali per il libero esercizio della religione—altrimenti il “no establishment” significherebbe la fine del libero esercizio della religione.
[George Weigel, Prefazione a Neocon e teocon, p. VIII]


Casini a parte (updated)

Sul diluvio di critiche che si è abbattuto su Pierferdinando Casini, mi sembra che qui sia stato colto il punto fondametale. Del resto, da quel che ho letto di sfuggita su Europa di ieri, sembrerebbe che pure nel campo avverso ci siano idee chiare circa il cui prodest—al di là delle apparenze—della manovra casiniana.

UPDATE Dec. 6, 2006, 3:00 pm

Interessante—e a mio avviso condivisibile—l'editoriale che si legge sul Foglio di oggi:

Nel centrodestra si sta scatenando una specie di bufera in un bicchier d’acqua per le recenti prese di posizione di Pier Ferdinando Casini. Ma che cos’ha detto o fatto, in fondo, di nuovo il leader dell’Udc? Continuerà a incontrarsi con Silvio Berlusconi, che gli resta “simpatico”, ma non parteciperà a vertici della Casa delle libertà, come peraltro faceva da tempo. Insiste sulla connotazione moderata che deve caratterizzare, secondo lui, un’opposizione efficace, mentre pensa che le scelte di movimento finiscano con il consolidare la maggioranza tenuta insieme dall’unico mastice dell’antiberlusconismo. L’aveva già detto e ripetuto. Ha preferito riunire i suoi seguaci a Palermo anziché confondersi nell’oceanica manifestazione romana. Non è il primo che si domanda se lo si nota di più se va o non va a una riunione, e sembra che abbia fatto la scelta giusta, almeno sul piano della visibilità. Casini ha cinquant’anni, il che, nella gerontocrazia dellapolitica italiana, lo classifica come un giovane di belle speranze. E’ in competizione, non con il monumentale Berlusconi, ma con Gianfranco Fini, e quando quest’ultimo gioca la carta della fedeltà, lui esibisce quella dell’indisciplina; si è già visto altre volte lo stesso gioco, magari a parti rovesciate. L’Udc è una formazione politica professionale, molto legata alle rimembranze, tutt’altro che disprezzabili, della Prima Repubblica e gioca una partita soprattutto al livello del ceto politico, probabilmente allo scopo di ottenere un sistema elettorale più vantaggioso. E’ un modo di esercitare l’opposizione consono alla sua natura e alla sua cultura politica.
Non è detto che otterrà i risultati che si prefigge, ma non rappresenta alcun vantaggio per il centrosinistra, nonostante qualche ammiccamento un po’ goffo di Romano Prodi. Con Casini gli altri leader del centrodestra debbono convivere, misurare le differenze e valorizzare le coincidenze di interessi, che per ora sono prevalenti. Solo se continueranno a farsi prendere dal nervosismo riusciranno a farsi del male da soli.

Tech Tags:

December 4, 2006

Perché in Turchia ha vinto il Papa

Tra le tante cose che sono state scritte sul viaggio del Papa in Turchia ce ne sono alcune che penso meritino di essere rilette a mente fredda. Del resto, forse sarebbe il caso di istituzionalizzare, almeno in qualche settore “anomalo” della blogosfera, la sana abitudine di non inseguire sempre e soltanto la cronaca, per quanto intrecciata, come in questo caso, con la Storia, ma di mantenere lo sguardo fisso su ciò che va ben oltre, quando ne vale veramente la pena.

A proposito di ciò che possiamo considerare «storico», comunque, Vittorio Messori ha detto la sua egregiamente sul Corriere del primo dicembre. In sostanza, il grande giornalista-scrittore cattolico esorta appunto a non scomodare la storia, e bacchetta implicitamente i tre quarti della carta stampata italiana. Quello che mi piace di più, in Messori, è proprio questa vocazione irrefrenabile a collocarsi qualche miglio lontano dal coro, mantenendo, a volte, un understatement tanto apprezzabile quanto scorbutico …, segno inconfondibile di onestà intellettuale. L'incontro tra Benedetto XVI e Bartolomeo I, patriarca di Costantinopoli, insomma, non rappresenta nulla di eccezionale, e Messori spiega molto bene perché, ricorrendo naturalmente a solide argomentazioni storiche. In particolare, a suo avviso,

[n]on si può certo mettere tra le novità la constatazione — ovvia per un cristiano—che l'uccidere in nome di Dio non è un omaggio all' Onnipotente bensì la peggiore delle bestemmie. È un richiamo, evidentemente, all'estremismo islamista, per il quale omicidio e suicidio sono sì condannati dal Corano, ma sarebbero meritori se compiuti nella lotta per la causa di Allah.

Caso mai, suggerisce Messori, bisognerebbe allargare la prospettiva e dar retta al professor Nicola Bux (docente di ecumenismo e consultore della Congregazione della Fede), secondo il quale destinatari del “messaggio” sarebbero, oltre che i musulmani, le

autorità dei Paesi dove l'ortodossia è maggioranza e dove la religione si mescola con il nazionalismo, riducendo nei fatti a cittadini di serie inferiore coloro che aderiscono ad altre confessioni cristiane, a cominciare dai cattolici.

Analisi altrettanto stimolanti, hanno svolto Gianni Baget Bozzo e Sandro Magister, i quali, mi sembra, concordano sostanzialmente sul senso complessivo del viaggio pontificio: l’accento posto sulla libertà di coscienza. Mentre, però, Gianni Baget Bozzo ha svolto un ragionamento più che altro geo-politico, il vaticanista dell’Espresso si è mantenuto sul terreno filosofico. Il che rende ancor più convincente l’identica conclusione.

Magister ha messo molto bene in evidenza, in particolare, la continuità tra la lectio magistralis di Ratisbona e la visita in Turchia. Una continuità che si è espressa non soltanto con le parole pronunciate dal Papa, ma anche, e forse soprattutto, con i «gesti», lasciando intravedere, tra l’altro, quanto Joseph Ratzinger stia facendo tesoro della grande lezione del suo predecessore.

Nel giorno della festa di sant’Andrea Benedetto XVI è entrato nella Moschea Blu di Istanbul con la croce di Gesù ben in vista sul petto, ha sostato davanti al mihrab rivolto alla Mecca, ha pregato in silenzio a fianco del gran mufti che sussurrava le parole iniziali del Corano: tutto questo ha fatto con la libertà e la chiarezza scolpite dalla sua lezione di Ratisbona. Ma un gesto non meno simbolico è stato, poco prima, l’ingresso del papa in Santa Sofia, oggi museo e in precedenza moschea e prima ancora chiesa cattedrale del patriarcato di Costantinopoli, nella terra in cui è fiorito il primo cristianesimo. In Santa Sofia Benedetto XVI non si è raccolto in preghiera, non ha ripetuto il gesto di Paolo VI qui in visita nel 1967.

Tutta da interpretare—ma non è difficile—questa gestualità: un profondo rispetto, quasi eroico, perfino, per la religione degli altri.

Quanto alla filosofia, assunto che “la vera meta del viaggio” è “Pietro che visita Andrea,” vale a dire: “il successore del primo degli apostoli che abbraccia il successore dell’altro apostolo, missionario tra i greci,” il messaggio che il Pontefice ha voluto trasmettere è trasparente, così come la continuità, appunto, con Ratisbona, cioè con la rivendicazione dell’incontro tra il Vangelo e il Logos:

L’apostolo Andrea – ha ricordato Benedetto XVI – “rappresenta l’incontro fra la cristianità primitiva e la cultura greca”. E cos’è questo se non l’incontro tra il Vangelo e il Logos, che era il cuore della lezione di Ratisbona? Il dialogo “secondo ragione” tra il cristianesimo e le altre religioni, in primo luogo l’islam, è per Benedetto XVI indissolubilmente legato alla ricerca dell’unità tra i cristiani. E il dialogo “secondo ragione” con l’islam esige, appunto, che sia sciolto ogni legame tra fede e violenza. Nelle sue omelie e nei discorsi in Turchia, papa Joseph Ratzinger ha incessantemente reclamato la libertà di religione. Con ripetute menzioni ai martiri – anche di oggi, come don Andrea Santoro – che hanno dato la vita per aver pacificamente testimoniato la loro fede cristiana.

Magister conclude riportando per intero le considerazioni svolte da Benedetto XVI il 30 novembre dopo aver assistito alla Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo celebrata da Bartolomeo I nella chiesa patriarcale di Costantinopoli. Un discorso, osserva il vaticanista, che sintetizza efficacemente il pensiero del Papa. Ovviamente, si tratta di una lettura molto raccomandabile.

Un ultimo punto da considerare sul viaggio del Papa è il contesto geo-politico nel quale si è svolto. Se n’è occupato, come dicevo prima, don Gianni Baget Bozzo, che ha sintetizzato così la situazione:

Il problema turco è grave per l'Europa, perché la Turchia è parte fondamentale dell'equilibrio occidentale europeo e al tempo stesso è profondamente diversa dall'Europa non solo per la sua religione musulmana, ma per la sua forma singolare di secolarità. Il rigetto dell'integrazione della Turchia nell'Unione Europea potrebbe rappresentare una grave crisi nel Paese, mettendo in dubbio la stessa giustificazione della laicità turca che si legittima con la necessità di legare la Turchia all'Europa e all'Occidente. Ciò spingerebbe la Turchia verso l'identità islamica politica, e questo è il rischio della trattativa. D'altro lato, solo l'adesione all'Unione Europea potrebbe rafforzare i diritti del singolo, e quindi la libertà religiosa, all'interno della società turca come la Chiesa chiede.

A questo aggiungiamo il clima di tensione che ha fatto seguito alla lectio di Ratisbona, comprese le minacce dei gruppi estremistici turchi e di Al-Qaeda. Ebbene, ha scritto Baget Bozzo, Benedetto XVI avrebbe potuto non andare, “prendere atto che non esistevano le condizioni politiche del suo viaggio e sollevare così un autorevole dubbio sulla libertà religiosa garantita dallo Stato secolare turco,” e invece ha preso la decisione più coraggiosa che poteva prendere, è andato e non ha negato il suo sostegno alle speranze turche riguardo all’Europa (“un atto di carità verso il popolo turco”) e l’incoraggiamento verso tutti coloro che, come i cristiani cattolici, ortodossi e armeni, si aspettavano dal suo viaggio “un aiuto al loro difficile statuto di cristiani che vivono in Turchia.”

Insomma, non è solo per motivi filosofici o teologici se questo viaggio è stato un successo, e lo è stato sicuramente: il coraggio di Joseph Ratzinger non è stato meno determinante. Chissà, tra l’altro, se il Papa aveva messo nel conto che l’Europa avrebbe anunciato la sospensione della trattativa con la Turchia per l’ingresso di quest’ultima nell’Unione proprio durante il suo viaggio, aggiungendo tensione a tensione, rischi a rischi. La Ue, a ben vedere—e malgré soi, vien fatto di pensare—, ha contribuito non poco a ingigantire il successo di un’impresa che all’inizio sembrava quasi disperata.



December 2, 2006

Sapere e Sapienza

Qualche giorno fa, monsignor Gianfranco Ravasi ha regalato ai lettori della sua rubrica quotidiana su Avvenire (“Mattutino”) la «perla di saggezza» che riporto per intero qui di seguito.

La medicina crea persone malate, la matematica persone tristi e la teologia peccatori.

Se si guarda all'edizione tedesca, detta «di Weimar», delle opere di Lutero, c'è da rimanere sbigottiti di fronte a quel piccolo oceano di pagine e di tomi. Perciò mi resta solo la scelta di fidarmi, quando trovo in un articolo che sto leggendo questo aforisma come attribuito al grande Riformatore. Pur col paradosso tipico dei motti sintetici, c'è in esso un'importante verità. La competenza non è di per sé principio di salvezza o di certezza. C'è chi s'ammala proprio per colpa di terapie forse anche altamente calibrate; c'è chi si scoraggia mettendosi di buona volontà a studiare le scienze per capire, e c'è il teologo che personalmente traligna o crea sensi di colpa in altri o li fa sbandare lungo percorsi impervi. Proprio per questo, ferma restando la necessità della razionalità contro ogni irrazionalismo magico, contro cure da stregoni e contro devozionalismi visionari, è importante distinguere tra sapere e sapienza. Si può essere colti ed eruditi a livello alto, eppure incapaci di spiegare e di comprendere in profondità la verità e l'autenticità delle cose. La sapienza è, invece, una dote che è, sì, frutto di studio, ma è anche dono; è impegno di ricerca intellettuale, ma è anche maturità personale; è nitore di pensiero, ma è anche calore di passione. Non per nulla in latino sàpere significa «aver sapore» e studère è «appassionarsi». Su questo crinale si misura la vera cultura, ma anche la genuina ricchezza interiore di una persona. Ed è solo per questa via che si può diventare maestri, anche senza avere i titoli accademici.
Gianfranco Ravasi