August 18, 2006

Marini e i pesci del Tigri

Dovrei muovermi di più in macchina—targhe alterne permettendo—per capire meglio quello che succede, dal momento che ascolto RadioRadicale praticamente soltanto quando sono in giro, come mi è capitato oggi, sballottato da incombenze tutt’altro che dilettevoli. Così è successo che ascoltassi in diretta i discorsi che quelli dell’Ulivo andavano facendo sul voto per il rifinanziamento della missione italiana in Iraq.

Il caso ha voluto che non ne ascoltassi più di sei o sette di interventi, e tra questi quello di Franco Marini. E’ notevole l’uomo. Ex sindacalista cislino, oggi politico “per caso”. Perché “per caso”? Prima di tutto, chiarisco, questo non è un complimento, ma una constatazione (starei per dire “oggettiva”), perché non ho sentito uno che faceva troppi sottili distinguo—un’ignorantone direbbe “uno che si arrampicava sugli specchi”—ma un uomo che pensa e parla come una persona normale. E questa, se posso esprimere un’opinione molto personale, è una rarità non solo in politica … Marini, cioè, parlava come uno per cui due più due fa ancora quattro, e non quattro virgola due o tre virgola nove, e magari cerca di convincerti che il concetto di numero va profondamente rivisto alla luce di qualche nuova teoria matematica che capovolge il povero buon senso dei buontemponi che ancora non hanno capito che tutto quello che hanno imparato da piccoli non va più bene, non è up to date.

Avevo ancora in mente le parole di D’Alema (intervista a Repubblica di oggi), persona sicuramente intelligente, forse addirittura troppo intelligente per essere completamente intelligibile, nei suoi sottili ragionamenti, da parte delle persone normali di cui sopra—minoranza, indubbiamente, almeno a sinistra di Marini, che viene dai monti dell’Abruzzo e ha poche speranze … Massimo, infatti, si forzava di far capire al volgo un concetto indubbiamente arduo. Questo:


«Non è vero che confermare la nostra opposizione alla missione italiana, per le ragioni di principio che ho ricordato, coincida con la richiesta di un ritiro immediato delle nostre truppe. Questo è un argomento di tipo formalistico, ma politicamente si tratta di due cose ben diverse. Ed oggi mi pare che nessuno di noi, neanche Bertinotti, chiede il ritiro immediato delle nostre truppe. È evidente infatti che non si potrebbe creare un vuoto e che chi ha voluto la guerra e si trova in Iraq non può non farsi carico di un passaggio di poteri che avvenga in un quadro di sicurezza e di garanzie.»

Premesso che nel volgo mi ci metto anch’io, e non mi vergogno di dirlo, devo dire che più mi domandavo che cosa significassero quelle parole più un senso di inadeguatezza si impadroniva di me. Ebbene, quando ascoltai la risposta (indiretta) di Marini, incredibile a dirsi, ebbi finalmente la sensazione di capire. “Capire”: che cosa straordinaria! Ma, ahimé, illusoria. Comunque, ecco come il “politico per caso” replicava a quanti sostengono la tesi che il no al rifinanziamento non equivale al ritiro dei soldati:


«Non mi venite a dire una cosa del genere. Quelli che stanno lì che mangiano? i pesci del Tigri? Una forza politica di governo non può chiudere gli occhi di fronte agli spiragli, deve vedere se qualcosa si muove. Nella Federazione c'è una drammatica carenza di analisi».

Bellissima la parabola mariniana dei pesci del Tigri! Che probabilmente sono moltiplicabili come quelli di cui narrano I Vangeli. Ma, appunto, è un concetto troppo “facile” per esser spendibile in politica.

E quanto ai trenta parlamentari centristi della coalizione, tra cui il segretario della Margherita Francesco Rutelli, che hanno firmato la mozione ispirata da Marini che chiedeva l’astensione anziché il voto contrario, per fortuna ci ha pensato Romano Prodi a mettere le cose in chiaro:


«Non la definirei una corrente ma un ramo dell'Ulivo, anzi un rametto […] Se i voti contrari fossero stati meno di così, sarebbe stato un voto bulgaro, come si diceva in altri tempi. Ma ciò non modifica la sostanza di una decisione molto condivisa e forte, anche se difficile. Anche i voti contrari provano che la Federazione funziona.»

Eccome se funziona. Sì, funziona alla perfezione. Tanto è vero che, come leggo sul Corriere,

al termine dell’assemblea dei parlamentari, Marini ha comunque fatto presente che in aula si atterrà alle decisioni prese a maggioranza e che «voterà no come il resto della federazione» ma si è detto «contento perché i riformisti hanno messo un punto forte».


E’ ben vero che, forse, la Fed è un meccanismo troppo sofisticato per le deboli menti delle persone normali, o almeno per le mie capacità. Ma tutto ciò—mi ripeto in queste ore—non deve scoraggiarmi: fa sempre bene un bagno di umiltà. E poiché riconosco i miei limiti potrei benissimo rinunciare a voler capire a tutti i costi ciò che va tanto al di là delle mie forze. Dirò di più: potrei benissimo, a questo punto, riconoscere che la compagnia—tutti uomini d'onore, occore dirlo?—è “troppo” per il sottoscritto. Forse è meglio stare dalla parte dei propri simili, di quelli che capiscono poco …, oltretutto in questo modo non si finisce per diventare dei complessati. Giusto?

[Il presente post è stato pubblicato per la prima volta presso windrosehotel.splinder.com il 15 febbraio 2005]

'Muslim women live in terror ...'

After the killing in the northern Italian city of Brescia of a young Pakistani woman by her own family, Adnkronos International reports that in a letter to Italy’s Interior Minister Giuliano Amato, the female president of the Confederation of Moroccans in Italy, Souad Sbai, is urging to put violence against Muslim women on the agenda of the government-appointed advisory body on Islamic affairs (the “Consulta Islamica”):


"Muslim women live in terror, yes in terror! The Consulta's next meeting must tackle the problem in Italy, starting with the case of Hina Saleem, killed by her father because she wanted to be an Italian," Sbai wrote in the letter. In the letter, seen by Adnkronos International (AKI), Sbai, who has studied the problems of Muslim women in Italy, asked how many more women would die in the name of Islam. "We have seen from the episode of the young Pakistani woman murdered in Brescia how religion can become a state within a state and Islamic law be inculcated in the minds of many Muslim parents who live in our country by self-styled, uneducated preachers (imams), " Sbai stated.Hina's father, Mohammad, apparently cut her throat last week in Sarezzo after she repeatedly refused an arranged marriage to a cousin in Pakistan. The 20-year-old woman was romantically involved with an Italian, had gone to live with him, worked in a pizzeria and wanted to become an actress."These imams are religious extremists who accord women no rights," Sbai stressed. For years, they have been operating from makeshift mosques in garages or Halal butchers' shops, have fanned misogyny, have terrorised immigrant Muslim communities and have retarded their integration, she said."Minister, for how long much must we continue to turn a blind eye on a situation that harms our women, who are forced to endure this type of abuse? Must we wait for further violence, more segregration, and see more Muslim women being humiliated and even have their throats slit?" Sbai asked."Must Muslim women have to endure polygamy, even if this is prohibited by Italian law? Must they be slaves under the sexist or paternalist yoke of extremists? Those who arrive in Italy are immured in their homes and often
subjugated by the ignorance in which they are kept," Sbia said. She claimed Muslim women's documents are being confiscated by their husbands or fathers when they get to Italy, which forces them to live clandestinely and prevents them from being able to bring domestic violence charges against male relatives. Sbai denounced the forced return of Muslim girls at 14 or 15 years of age to their countries of origin to become victims of arranged marriages. "The objective is to prevent these girls from becoming Westerners, not just through gaining citizenship but above all through embracing Western societies's shared values of liberty and democaracy. These girls have no country that protects them: they are immigrants in Italy and foreigners in their countries of origin," Sbai stressed.Following the apparent 'honour killing' last week of Hina, 20, allegedly by her father, Muhammad, Amato has signalled that tougher rules may be needed for Italian citizenship, for which Muhammad - a legal resident in Italy since 1989 - had recent applied. Amato said immigrants wanting Italian citizenship must demonstrate they uphold human rights and respect for women - not just swear loyalty to the Italian constitution as required by the government's new citizenship bill due to be debated by the Italian parliament next month. Hina disappeared last Thursday and last Saturday was found buried beneath the family home in Sarezzo, facing Mecca with her throat cut. Muhammad has been arrested in connection with her murder and has reportedly confessed to killing his daughter. Police investigating Hina's killing are searching for her -brother-in-law and have also detained her uncle. They suspect Hina her father may not have acted alone in planning and carrying out her murder. The slaying has shocked Italy and has been condemned by Muslim community leaders.
Hina's boyfriend, Giuseppe Tempini, a carpenter has reportedly tried to commit suicide since her death.


UPDATE: Sunday, August 20, 2006. See also The Independent and ZENIT - The World Seen From Rome.

Barenghi o Agnoletto, questo è il problema ...

«Tra un Iraq liberato a colpi di teste tagliate e un Iraq occupato dagli americani, io scelgo la seconda ipotesi». Queste parole le aveva scritte su il manifesto del 28 agosto Riccardo Barenghi, ex direttore del “quotidiano comnista”, rispondendo a un lettore indignato per la gestione governativa del sequestro Baldoni. E il giorno dopo, domenica, la Repubblica ne aveva riferito con un certo risalto, riportando tra l’altro i commenti alquanto severi di Mussi e Agnoletto. In particolare colpivano le parole di quest’ultimo: “Sono amico di Riccardo, ma quegli ultimi capoversi della sua risposta non coincidono con nessun filone di pensiero a sinistra” (il corsivo è mio).

In tutta sincerità sono stato a lungo incerto se attribuire la palma della frase più “storica” della giornata al Barenghi o all’Agnoletto. Alla fine la scelta è ricaduta sul primo, ma in realtà le illuminate parole dell’eurodeputato rifondarolo sembrano pronunciate apposta per far risaltare ancor più quelle di Jena (sì, perché nonostante Barenghi lo neghi il micidiale corsivista del manifesto è proprio lui). A fronte della sfrenata e deprecabile libertà di giudizio di questi, infatti, Agnoletto insinuava il più che fondato sospetto che un’opinione non sia giusta o sbagliata, condivisibile o meno, in base ad un criterio di contiguità o distanza rispetto alla realtà fattuale, oppure, che so, all’intelligenza o al semplice buon senso, bensì alla corrispondenza-coincidenza “con un filone di pensiero a sinistra”. Da manuale, mi son detto. E quasi quasi, se ci penso ancora un attimo, attribuisco l’alloro all’Agnoletto… A volte scegliere è veramente difficile, ma che ci vogliamo fare, la vita è fatta di scelte!

Comunque, domenica scorsa ho diligentemente messo da parte l’articolo di Repubblica, riproponendomi di parlarne sul blog il giorno dopo, visto che subito non mi era possibile. Ma il momento è arrivato soltanto oggi, grazie al Riformista (vedi sotto il copia/incolla) che ha ripreso in prima pagina l’argomento. Peccato soltanto che il giornale di Antonio Polito parteggi così sfacciatamente per Jena e non metta adeguatamente in risalto il profondo pensiero di Agnoletto, il quale tuttavia è e resta un uomo d’onore. Ma su questo c’erano forse dubbi?

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BARENGHI. «PERCHÉ HO LANCIATO LA PROVOCAZIONE SUL MANIFESTO»
Tra islamisti e yankee, la Jena non si ritira

Riccardo Barenghi non ritira, non è una iena e non è nemmeno la «jena» (dice lui) che firma i corsivi sulla prima pagina del Manifesto. La battuta incriminata, ripresa da Repubblica ed erroneamente attribuita alla jena, era infatti parte di una risposta ai lettori nella rubrica delle lettere, dunque più lunga e articolata delle poche righe in prima pagina dell'anonimo corsivista. In ogni caso Barenghi non la ritira, non dice di essere stato frainteso e non abiura. Fatto sta che la lunga e articolata risposta in questione concludeva così: «Tra un Iraq liberato a colpi di teste tagliate e un Iraq occupato dagli americani, io scelgo la seconda ipotesi».
A questa conclusione, ammette ora Barenghi, ha fatto seguito «un po' di discussione, con i lettori e all'interno della redazione» (e nella sinistra, da Agnoletto a Mussi, pronta a redarguirlo per l'«impropria» domanda). Ai lettori risponderà certamente domani, quanto alla redazione non mancheranno le prese di distanze. Certo, era «un'estrema provocazione - dice - perché è evidente che io non sto con gli americani». Ma la provocazione serviva per dire tre cose. La prima: «C'è un vizio nella sinistra radicale, in noi che consideriamo ogni azione commessa in Iraq, anche la più orrenda, come reazione alla guerra; ma non tutto è una reazione, né può essere giustificato o anche solo spiegato come semplice reazione, nella convinzione che se non ci fosse la guerra tutto tornerebbe a posto. Non è così, perché lì c'è comunque un coacervo di fondamentalismo, fanatismo e terrorismo che a me fa paura, a prescindere dall'intervento occidentale». Seconda cosa: «Se questi tagliatori di teste continuano, con tutti i vantaggi di una strategia politica efficacissima sia per l'enorme rilevanza mediatica, sia per la concretezza dei risultati che ottiene (vedi il ritiro delle Filippine) e se l'Iraq viene liberato grazie a loro, di quale liberazione possiamo parlare?». Terza cosa: «Dire come ho detto che tra l'Iraq liberato dai tagliatori di teste e l'Iraq occupato dagli americani io scelgo il secondo, certo era un modo di suscitare la discussione, però la questione è seria. Poi è ovvio che io non voglio scegliere tra queste due alternative, si sa come la penso e tutto quello che ho sempre detto e scritto su questa guerra e sulla condotta americana».
Ma se è per quello, Barenghi ricorda di avere anche scritto che tra Bush e al Sadr sceglieva Bush («perché Bush so come combatterlo»). In ogni caso, provocazioni a parte, quello che serve è «creare le condizioni perché da una parte e dall'altra sia la politica a parlare, altrimenti c è solo la spirale dell'imbarbarimento. Se invece gli americani se ne vanno e arrivano altri, se c'è una transizione guidata dall'Onu, senza più traccia dei paesi “willing”...». Una svolta, intervento dell'Europa, Barenghi sposa dunque la linea Fassino? «Se Fassino pensa questo è Fassino che è venuto sulla linea nostra», risponde. E se con «nostra» intendesse del Manifesto, della sinistra radicale o soltanto di Barenghi e della jena, non sapremmo dire.


[Il presente post è stato pubblicato per la prima volta presso windrosehotel.splinder.com il 31 agosto 2004]

Terzista sarà lei ...

Eugenio Scalfari compie ottant’anni, e giustamente viene festeggiato da Repubblica, che gli dedica due paginone—che sono consultabili anche online—con i contributi di alcune delle firme più prestigiose del giornale. Tutto da leggere, ovviamente, tutto molto interessante e istruttivo, ancorché prevedibile, doveroso e perfino, parlando con franchezza, scontato. E questo sia detto senza alcun intento “minimalistico”, quasi a voler insinuare che potrebbe esserci più “dovere” che “commozione” in certi sontuosi rituali del giornalismo italico. Tanto più che, quasi a fugare siffatti dubbi, e consimili poco onorevoli (oltre che sterili) illazioni, è intervenuto anche Il Riformista, che non era assolutamente tenuto a farlo e invece lo ha fatto, con convinzione ed emozione, per puntualizzare e illustrare i meriti indiscutibili del Grande Vecchio del giornalismo italiano (titolo che, dopo la scomparsa di Indro Montanelli, appartiene oramai a lui, al fondatore dell’Espresso e di Repubblica). Ma del Riformista parleremo dopo. Ora occupiamoci, sia pur fugacemente, dell’omaggio tributato da Repubblica.

Giorgio Bocca si rivolge a Scalfari direttamente:

Caro Eugenio, (…) alla meta dei settanta ci siamo detti: che resta da capire? A quella degli ottanta eccoci qui a dirci: tutto resta da capire. Quella primavera del '76 quando hai fondato Repubblica, sembra lontana anni luce, siamo di nuovo al bivio fra pace e guerra, la democrazia è a rischio …

Già, tutto resta da capire, tranne che la democrazia è a rischio, i barbari sono alle porte e la Patria, se non è morta l’8 settembre del ’43, sta morendo adesso in un mare di fango. Ecco un modo efficace per ricostruire i tratti fondamentali della personalità del Direttore. La conclusione dell’articolo è lirica:

Qualcuno dice che sei stato un padre padrone. Il direttore di un giornale lo è per funzione, per necessità, è il comandante di una nave che deve scegliere la sua rotta ogni giorno anche all'ultima ora. Ma ci sono padri padroni onesti, pazienti comprensivi e padri padroni carogne. Tu sei un padre padrone che si è stufato di farlo fra il generale rimpianto.

Padre e padrone sì, ci mancherebbe, ma che padre e che padrone! Mica una carogna! E che dire di questo accorato, commosso, disarmante (nella sua spietata veridicità) benvenuto in una categoria benemerita …

Benvenuto fra i nonni rispettabili di questo non sempre rispettabile mestiere.

Beato chi riesce mantenersi rispettabile in mezzo a gente che rispettabile non sempre riesce ad esserlo—e magari non ci prova neanche!

Giampaolo Pansa, dotato com’è di sano sense of humour—al contrario del serioso e corrucciato Bocca (mai “palloso”, però, per carità!)—riesce persino nell’ardua impresa di rendere umanamente simpatico il severo “padre padrone” di quelli che Christian Rocca chiama irriverentemente i republicones:

Prima di tutto, mi sembrò ieratico. Con la testa spinta all'insù, come il Santissimo in processione. La barba di un candore abbagliante. Gli occhiali leggeri che non imprigionavano lo sguardo. La statura alta, la figura snella e il tono fervido del cinquantenne che, nel pieno delle forze, si avvia all'azzardo della sua vita. (…)
Certe sue immagini sapevano di grida incitatorie e guerresche. Ci diceva, peccando di vetero maschilismo: "Quando saremo diventati il primo giornale italiano, avrete diritto allo stupro e al saccheggio!".

Epico e ironico insieme, incurante della possibilità di essere male interpretato dai soliti maliziosi detrattori, Pansa esplora financo le pieghe più nascoste della personalità dominante del pater:

Eugenio era dominante anche nei confronti dei capi politici del tempo. Non li disprezzava, ma si riteneva più intelligente, più acuto e più forte di loro. Non apparteneva alla categoria dei direttori che accettano consigli dalla nomenclatura partitica. Era lui a darli, non a riceverli. Anche in questo si rivelava imbattibile. A uno sgarbo, replicava con un altro sgarbo. Se qualche big gli rifiutava un'intervista importante, Eugenio lo ammoniva con un avvertimento che mi è rimasto nella memoria: "Stia attento, caro ministro, caro segretario, d'ora in poi lei passeggia davanti alla bocca del cannone!".

Ecco, si potrebbe dire, un ritratto a tutto tondo, quasi shkespeariano nei chiaroscuri e nel feroce realismo della rappresentazione. E’ così che si dovrebbero sempre onorare i grandi uomini …

Da segnalare anche il contributo di Nello Ajello, che abbozza sapientemente un profilo biografico, dagli (inevitabili, ahinoi) trascorsi fascisti e dalle giovanili frequentazioni con Italo Calvino all’avventura del Mondo, con Mario Pannunzio e la sua mitica squadra, fino alla fondazione dell’Espresso (in tandem con Arrigo Benedetti) e di Repubblica.

Ma veniamo ora al Riformista. Dopo l’omaggio a Scalfari giornalista e fondatore-direttore di giornali («Prima di Scalfari i quotidiani erano fatti in un modo che risulterebbe letteralmente incomprensibile ai lettori di oggi»), il giornale di Antonio Polito elenca i meriti “politici” del Nostro, che si compendiano in una parola: «terzista»

Scalfari è importante anche per la cultura politica italiana. E' stato il primo «terzista», benché non gli farà piacere sentirselo dire. Se terzista è chi non sta «né di qua né di là», questo no. Scalfari è sempre stato o di qua o di là. Solo che era lui a definire i confini del qua e del là. Non è mai «appartenuto», e pur prendendo sempre parte non ha mai disdegnato di cercare alleanze con chi stava dall'altra parte. Se il terzista considera la politica un mezzo per raggiungere un fine superiore, e dunque la usa laicamente e trasversalmente piuttosto che adorarla come un feticcio, Scalfari lo è, perché ha sempre messo la tattica al servizio della strategia, che per lui era costruire una sinistra liberale ed occidentale, e dare così all'Italia una speranza di alternanza.

Nell'Italia divisa tra Dc e Pci, Scalfari è stato un perfetto terzista, troppo laico per essere un democristiano, troppo libertario per essere un comunista. In quell'Italia, di fatto più bipolare di questa, lui vedeva quello che univa La Malfa a Berlinguer, e a che cosa serviva un De Mita. Ha sempre avuto un nemico - Craxi prima, Berlusconi poi - ma ha sempre suonato su una tastiera ampia di potenziali amici.

Che dire ancora? C’è di che essere ammirati per una disamina del «terzismo» che ci rivela, tra l’altro, una verità che in molti—c’è di che esserne sicuri—hanno fin troppo a lungo ignorato : che per esser terzisti occorre avere «un nemico», possibilmente da stritolare, da odiare—ebbene sì—come forse neppure un seguace di Bin laden (absit injuria verbis!) oserebbe. Uno non finisce mai di imparare, è proprio vero. E una irrilevante ricaduta di questa lezione è che di certo il titolare del qui presente blog ha finalmente capito che non sarà mai un terzista. Terzista sarà lui, il Fundador—che tuttavia (ma occorre ricordarlo?) è sicuramente un uomo d'onore—, il sottoscritto si chiama fuori.

[Il presente post è stato pubblicato per la prima volta presso windrosehotel.splinder.com il 7 aprile 2004]

Cossiga, cioè D'Alema ...

La lettera di Francesco Cossiga al Riformista è quasi un abstract di quella Storia dei partiti politici italiani che il presidente emerito della Repubblica deve ancora scrivere. Dotta e un tantino irridente, com’è nello stile dell’ex-picconatore. Irridente perché dotta—e magari, come a me piace pensare, dotta perché irridente.

Cossiga conosce troppo bene la storia politica del secolo scorso per manifestare—sia pure obtorto collo—la benché minima indulgenza verso «la filosofia politica prodiana-parisiana del superamento delle culture riformiste tradizionali: socialista - compreso il "comunismo nazionale" italiano di Gramsci, Togliatti e Berlinguer e dei loro successori Occhetto e D'Alema - cristiano-democratica, liberal-democratica e liberal-socialista, radicale, nonché delle grandi ideologie del XIX e XX secolo marxiste e liberal-costituzionali».

Fassino, attento, ammonisce paterno il vecchio riformista, guardati da quella «confusa e pericolosa “teologia politica”, tutta interna all'ecclesiologia cattolica, a metà strada tra il neo-giobertismo e l'intransigentismo antiliberale di indirizzo sociale che è stato il "dossettismo"». Guardati dal pensare che le radici del nuovo riformismo siano in quella “teologia politica”. Traduzione : no al partito di Prodi.

Il “Discepolo” (che non sa di esserlo) capirà? «Non credo ad una politica senza storia e senza cultura»—ammonisce ancora il Maestro (che sa di esserlo). Ma sarà poi vero, come adombra il molto onorevole Consigliere, che Fassino e gli altri padri ri-fondatori stravedono per le magnifiche sorti e progressive di un riformismo finalmente dotato di un proprio Berlusconi tecnocratico (nella persona di Romano Prodi, of course), e in aggiunta con tanto di strizzata d’occhio al "capitalismo democratico" dei grandi interessi?

La speranza, fortunatamente, viene da D’Alema. Se ha detto sì—argomenta il Maestro—in fondo è perché egli intravede, «in prospettiva», «un soggetto politico unico con opzione socialista». Certo, bisognerà aspettare l’inevitabile flop—in prospettiva…, o forse c'è già stato?—di Romano Prodi e dei post-dossettiani. Dunque, aspettiamo.

Oltretutto, il vetusto e molto onorevole Mentore riconosce a D’Alema grandi doti strategiche, «meno invero tattiche». Ecco, siccome di strategie si tratta, e non di tattiche (grazie al cielo!), possiamo pure fidarci. Che dico, dobbiamo fidarci. Non è forse vero, infatti, che il Mentore e lo Stratega, per grazia divina e nostra consolazione, sono entrambi uomini d’onore?

So chi siete ma non so dove andate

[Il presente post è stato pubblicato per la prima volta presso windrosehotel.ilcannocchiale.it il 7 ottobre 2003]

Iran, anche il manifesto recupera (o forse no)

Un articolo del manifesto di oggi affronta, con il coraggio che contraddistingue il "quotidiano comunista" da un po' di tempo in qua, la questione Iran. Fa chiarezza, ed era ora, su chi sono realmente i «mujaheddin del popolo». Ecco come:

Non tutti i dissidenti iraniani in piazza Farnese hanno condiviso la forma di lotta scelta dai mujaheddin e le loro finalità, e lo stesso accade in Iran: nonostante la protesta anti-ayatollah sia giunta ormai al nono giorno, i «mujaheddin del popolo» sono visti come equivoci, filoamericani e nemici di Tehran.

Ecco la parola magica: “filoamericani”! E’ ben vero—e il manifesto lo sa bene, anche se ha dimenticato di dirlo—che tanto negli Usa quanto nella Ue i mujaheddin sono nelle liste dei più pericolosi terroristi. Ma è ovvio che si tratta di un gioco delle parti : fingiamo di darti la caccia, ma in realtà ti proteggiamo. Chi vogliono fare fesso?

Per nostra fortuna c’è chi capisce le cose al volo e ha la pazienza e la generosità di spiegarle al volgo, che ringrazia commosso (e un po' confuso). Gli scettici diranno (seccati certamente, indignati giammai!) che questa è l’ennesima variante della Teoria del Grande Complotto. Al che i nostri coraggiosi cronisti potranno fin troppo facilmente replicare che non di teoremi si tratta ma di verità assodate, chiare come il sole. Più modestamente, agli accusatori io direi : e se anche fosse? Non sta forse scritto «Non di solo pane vive l’uomo»?

In altre parole: volete mettere? cosa è meglio tra la realtà e il sogno, tra la piatta quotidianità e l'immaginazione senza freni? Ma di questa e altre consimili convinzioni mi assumo soltanto io la responsabilità. Al manifesto lascio invece il monopolio, ben guadagnato, delle verità nascoste, note soltanto a loro, per grazia ricevuta.

[Il presente post è stato pubblicato per la prima volta presso windrosehotel.ilcannocchiale.it il 20 giugno 2003]

Il gaffeur e il tedesco di Germania

Berlusconi si è scusato con Schroeder? Sì e no. Sì secondo il cancelliere tedesco, no secondo un comunicato diffuso da Palazzo Chigi, in cui si puntualizza che "il presidente italiano ha ribadito quanto già espresso ieri. E cioè il suo rincrescimento per il fatto che qualcuno abbia potuto fraintendere il senso di una battuta ironica".

Il gaffeur, sembrerebbe, ha scelto una soluzione soft. E il "kapò"? Lui "ha dichiarato di considerare al pari di scuse il rincrescimento espresso dal presidente del Consiglio Silvio Berlusconi nel corso della telefonata con Schroeder". (vedi resoconto del corriere.it)

Per la verità, la parte lesa "ha anche lasciato intendere che si aspetta ora un colloquio chiarificatore tra il presidente del Consiglio europeo ed il presidente del Parlamento europeo". Poveretto, c’è rimasto male ed è comprensibile la sua ricerca di approvazione e sostegno.

E pensare che lui, il presunto kapò, era stato così delicato, così rispettoso delle prerogative di quell’italico popolo sovrano che aveva provveduto a investire della suprema autorità di governo quell’impenitente gaffeur. Malgré soi, si potrebbe ben dire, ma consapevolmente e alla luce del sole.

"Questi popoli, che noia!" Questo deve aver pensato il brav’uomo, che sarà pure "tedesco di Germania", cioè un tantino primo della classe (e quindi antipatichetto), ma è, cribbio!, un socialista, uno che il popolo lo conosce bene, così bene che lo aborrisce ("Giustamente—avrebbe detto qualcuno che da un po’ si è levato dai piedi—e basta con queste ipocrisie!"), o almeno ne diffida. O almeno diffida del popolo italiano (traditori una volta, traditori sempre!) e della sua capacità di scegliere autonomamente chi lo deve governare.

E uno così lo vogliamo definire un kapò?

[Il presente post è stato pubblicato per la prima volta presso windrosehotel.ilcannocchiale.it il 3 luglio 2003]

L'Italia innanzitutto (forse)

Emanuele Macaluso sul Riformista di oggi stigmatizza la presunta gaffe di Scalfaro su Berlusconi-Mussolini: “Non credo che ciò serva ad aprire un confronto con chi nella Casa delle Libertà si è differenziato dall'oltranzismo berlusconiano”.

Esagerato! Allora perché non spingersi fino al punto di affermare che questo tipo di esternazioni scredita ancor più di quanto già non lo siano le istituzioni della Repubblica? Perché in fondo a parlare è pur sempre un ex capo dello Stato, e dunque, se si tien fermo l’assunto, in questo modo il prestigio della carica che fu del Nostro (per sette lunghi anni!) ne risulta sminuito e quasi banalizzato.

Bisognerebbe, ne sono convinto, riuscire a moderare i termini, e certi scivolonii sarebbero assolutamente da evitare. Da un commentatore attento e prudente quale è sempre stato Macaluso, francamente, non mi aspettavo una valutazione così precipitosa, una tale acrimonia. Si potrebbe facilmente rivoltare la frittata e obiettare che proprio lui ha inferto un duro colpo al prestigio delle istituzioni, con questa sua uscita—che un tempo i democristiani di lungo corso, come lo stesso Oscar Luigi Scalfaro, avrebbero definito “improvvida”.

E poi siamo sicuri che la battuta in questione vada interpretata come generalmente è stata intesa? Chi ci dice che il Senatore a vita—che si sarà pure lasciato sopraffare dal gusto della battuta acchiappa-applausi (è stata pronunciata nel corso di un dibattito svoltosi sotto i tendoni della festa dell’Unità—non abbia voluto giocare di sponda, lanciando indirettamente un appello alla concordia all’interno della C. d. L.? Vale a dire: amici di Alleanza nazionale, tenetevi stretto il capo della vostra coalizione, sostenetelo senza ambiguità, e se dovete ingoiare qualche rospo a causa di quei mattacchioni della Lega, sopportate in silenzio! In fondo anche il vostro (e nostro) premier, come voi sapete chi, è andato al governo in modo perfettamente legittimo, ma poi …

Se così fosse, altro che minare la credibilità delle istituzioni! Si sarebbe trattato di una scialuppa generosamente lanciata ad una leadership un po’ traballante. Un esempio di lealtà nei confronti di un governo in carica, che anche se di una parte diversa da quella del Senatore Scalfaro è pur sempre il governo del Paese. L’Italia innanzitutto. Altro che storie!

La gaffe di Scalfaro su Mussolini e il Cavaliere

[Il presente post è stato pubblicato per la prima volta presso windrosehotel.ilcannocchiale.it il 10 settembre 2003]

Chapeau, Signor Biagi!

La prima volta che mi sono occupato di Sette sul blog avevo dichiarato che Enzo Biagi—che come si sa tiene una rubrica sul news magazine del Corriere (“Diciamoci tutto”)—non lo leggo. Devo fare ammenda: ho fatto malissimo. Non a rivelare la mia colpa, ben inteso (perché ora so che di questo si tratta!), bensì per l’appunto a commetterla.

Insomma, ho finalmente compreso il valore di questo giornalista. Starei per dire che di Biagi non ce ne vorrebbe uno solo, ma tanti. Ma non voglio esagerare, passando da un estremo all’altro. Va bene riconoscere i propri errori, ma anche in questi frangenti un minimo di understatement non guasta: anche gli elogi, come le critiche devono essere misurati!

E’ stata, dunque, la lettura dell’ ultimo numero di Sette ad aprirmi gli occhi. L’argomento di “Diciamoci tutto” è, questa settimana, il degrado delle periferie urbane. Titolo: “Rozzano, Italia”, sottotitolo “Le periferie stanno diventando come il Bronx?” Confesso che è stato il sottotitolo (di cui Biagi naturalmente non porta alcuna responsabilità), del tutto privo di originalità, a suggerirmi di leggere il resto. Per pura cattiveria. Mi sono detto che se il testo corrispondeva al sottotitolo avrei potuto farci su un commento pestifero. E invece …

E invece ho letto frasi che mi sono rimaste scolpite nella mente. I fatti a cui Biagi si riferisce sono quelli noti, tremendi, disarmanti nella loro efferatezza. Ma il Nostro ha saputo trarne spunto per un autentico sfoggio di sapiente ironia. E’ riuscito a far diventare lieve quella materia infame. Prima perla di saggezza: “I cronisti parlano di una «resa dei conti». Ma chi erano i debitori della vita?” Non è stupefacente nella sua genialità? “E’ vero—prosegue Biagi imperterrito e consentendosi una dotta citazione—«La follia va in giro per il mondo come il sole»”. E qui arriva l’impareggiabile affondo: “Ma con la tendenza, a seguire le cronache dei nostri giorni, a non tramontare mai”.

Ci sono rimasto di stucco. Ecco—mi son detto—una lezione di eleganza, una classe cristallina al servizio dell’informazione! Ha trasformato il dolore e lo sgomento in una brillante battuta, ha citato un grande del passato (chissà chi era poi?) e ha quindi chiosato da par suo!

Seconda perla di saggezza. Dopo aver ricordato, con la sua prodigiosa memoria da archivio vivente delle glorie del giornalismo nazionale, un felicissimo titolo di giornale (“Il sequestro di Natale”), la follia precedentemente richiamata, e il suo tragico corollario di cieca e disumana violenza, diventano, nella fervida immaginazione di Biagi, “un fatto da considerare prevedibile e scontato, come le uova di Pasqua. Adesso abbiamo anche la strage del post-Ferragosto” (il corsivo è mio). Straordinario, mi son detto stropicciandomi gli occhi!

Potrei andare avanti a lungo, dal momento che la rubrichetta di questa settimana è davvero una miniera di folgoranti intuizioni, ma credo di aver reso sufficientemente l’idea. Aggiungo solo un’altra chicca, per concludere in bellezza: “Li chiamano, sembra più elegante, «Killers», ma sono degli assassini”. Ebbene, credo che il chiarimento fornitoci da Biagi vada molto al di là dell’utilità in sé e per sé della cosa—anche se non guasta mai cercare di farsi capire da tutti, e proprio da tutti, senza escludere neppure i bambini di prima elementare. Direi, e se sbaglio qualcuno mi corregga, che il chiamare le cose col proprio nome, senza infingimenti e paludamenti, sia uno dei doveri primari di un’informazione che sia degna di questo nome. Anche a costo di precludersi l’uso di termini eleganti come, appunto, killers.

Che altro dire? Chapeau, Signor Biagi! Anzi, tanto di cappello!

[Il presente post è stato pubblicato per la prima volta presso windrosehotel.ilcannocchiale.it il 5 settembre 2003]

A strange interview with the Dalai Lama

I am two days late with my blogging duties, but I have been very busy in the last few days and I haven't had much time to do anything other than working and having a quick look at some of my favourite weblogs. So, yesterday I came across this interview to the Dalai Lama, though only a couple of hours ago I could have the reading finished.

A journalist at The Independent, Johann Hari—the author of the interview—blogs at johannhari.com and Harry’s Place. According to His Holiness the Dalai Lama, if you look at his belly Johann “appears to have two stomachs”. Being called a minger by the Pope is what he is likely to expect from the future. What else? Well, he says …
I don't think the Dalai Lama likes me. He looks tetchy; he narrows his eyes in my direction, then looks at his watch.

Please read the interview to understand why …

[This post was first published at windrosehotel.splinder.com on June 8, 2004. The comments to the original post are worth reading]

Umberto Eco and the spirit of the Enlightenment

Are you among those who believe that “all that there is to understand has already been understood by long-vanished ancient civilisations” and that “it is only by humbly returning to that traditional and immutable treasure that we may reconcile ourselves with ourselves and with our destiny”? Ok, you are not the kind of reader Umberto Eco were targeting when he wrote the following notes on science, ideology of progress (the so-called spirit of the Enlightenment) and their detractors. Or better still—to be honest with you—I suggest that you don’t read them, unless you are very open-minded...:

Science is frequently criticised by the mass media, which hold it responsible for the devilish pride that is leading humanity towards possible destruction. But in doing so they are evidently confusing science with technology.

It is not science that is responsible for atomic weapons, the hole in the ozone layer, global warming and so on: if anything, science is that branch of knowledge that is still capable of warning us of the risks we run when, even in applying its principles, we put our trust in irresponsible technologies.

The problem is that in many critiques of the ideology of progress (or the so-called spirit of the Enlightenment) the spirit of science is often identified with that of certain idealistic philosophies of the 19th century, according to which history is always moving on towards better things, or toward the triumphant realisation of itself, of the spirit or of some other driving force that is forever marching on towards optimal ends.

At bottom, however, many people (of my generation at least) were always left in doubt on reading idealist philosophy, from which it emerges that every thinker who came after had understood better (or "verified") what little had been discovered by those who came before (which is a bit like saying that Aristotle was more intelligent than Plato). And it is this concept of history that the Italian poet Leopardi challenged when he waxed ironic about "magnificent and progressive destinies".

(…)

Modern science does not hold that what is new is always right. On the contrary, it is
based on the principle of "fallibilism" (enunciated by the American philosopher Charles Peirce, elaborated upon by Popper and many other theorists, and put into practice by scientists themselves) according to which science progresses by continually correcting itself, falsifying its hypotheses by trial and error, admitting its own mistakes - and by considering that an experiment that doesn't work out is not a failure but is worth as much as a successful one because it proves that a certain line of research was mistaken and it is necessary either to change direction or even to start over from scratch.

And this is what was proposed centuries ago in Italy by an institute of learning known as the Accademia del Cimento, whose motto was " provando e riprovando ". This would normally translate into English as "to try and try again", but here there is a subtle distinction. Whereas in Italian " riprovare " normally means to try again, here it means to "reprove" or "reject" that which cannot be maintained in the light of reason and experience.

This way of thinking is opposed, as I said before, to all forms of fundamentalism, to all literal interpretations of holy writ - which are also open to continuous reinterpretation - and to all dogmatic certainty in one's own ideas. This is that good "philosophy," in the everyday and Socratic sense of the term, which ought to be taught in schools.
[Read the rest]
[An Italian
translation
]

Whether or not such a good “philosophy” should be identified as the (almost?) exact opposite of that of the postmodernist thinkers—as Professor Norman Geras seems to suggest in his very interesting comment to Eco’s article—it’s a complex question. I consider myself pro-science but wouldn’t say that being such is contradictory (for instance) with my personal views on the post-modern philosopher Richard Rorty. Of course I am not affected by scientism, namely the “exaggerated trust in the efficacy of the methods of natural science applied to all areas of investigation (as in philosophy, the social sciences, and the humanities)”, to quote the Merriam-Webster Online Dictionary.

To give an example, I wouldn’t ask the scientists to show me the meaning of my life, but I am among those who feel gratitude for the people who gave an Italian five-year-old boy who suffered from Thalassemia the opportunity of having a normal life:

Italian Boy Cured by Cells from Twin Baby BrothersMon 6 September, 2004 18:58

ROME (Reuters) - An Italian boy has been cured of a potentially lethal form of anemia by a new type of stem-cell therapy, using cells from the placenta of both of his recently born twin brothers, the health ministry said on Monday. The five-year-old boy suffered from Thalassemia, a genetic disorder which stops the body producing enough hemoglobin, the substance in the blood which carries oxygen around the body.
The innovation of this operation was that it used two different batches of placenta blood from each of the brothers.
One batch of blood was rich in stem cells -- basic cells that can grow into a variety of different cells. The other had been altered in vitro to combat the disease.
Thalassemia patients are usually treated by regular blood transfusions and regulation of their blood-iron levels.
The operation carried out at San Matteo clinic in Pavia, northern Italy, is an alternative to the usual cure -- a bone marrow transplant which is often complicated by the need to find a compatible donor.

[This post was first published at windrosehotel.splinder.com on September 8, 2004. The comments to the original post are worth reading.]

Emerson and Nietzsche

It is fairly well known that Ralph Waldo Emerson influenced generations of Americans, from his friend Henry David Thoreau to Walt Whitman, John Dewey, and recently, Richard Rorty. What is much less known is that even Nietzsche had a profound admiration for Emerson’s writing. Or better still—as Stanley Cavell has observed—“The depth of the connection between [Emerson and Nietzsche] is unknown. Everyone has to discover that for themselves. No matter how many people tell you the connection exists you forget it, and you can't believe it".

Yet, in the course of the last years—mostly thanks to Stanley Cavell’s enduring work on Emerson—this situation has begun to change. An example of that change of mood is David Mikics’ recent book The Romance of Individualism in Emerson and Nietzsche, reviewed by Steven G. Affeldt in the Notre Dame Philosophical Reviews. An ambitious and wide-ranging work in which the author specifies and investigates a number of important affinities between Emerson and Nietzsche—even though Mikics warns against too closely assimilating the two, wishing, instead, “to outline a dynamic relation in which Nietzsche struggles with Emerson’s influence and example in order to develop his own path”.

Here are some excerpts from Affeldt’s review:

[Mikics] treats many of Nietzsche’s major works, often offering surprising and original interpretations of them, as well as several of Emerson’s most important essays. Furthermore, and remarkably given the quantity of material he considers, his readings are detailed, subtle, keyed closely to specific passages, and directed toward highlighting the complexities, internal tensions, and rifts within the individual works.

…..

Mikics specifies and traces a number of important, inter-connected affinities between Emerson and Nietzsche. However, the most central affinity he explores is their shared pursuit of what he calls individuality; a pursuit he associates with a type of perfectionism. That is, Mikics understands the work of Emerson and Nietzsche to
begin from a shared judgment that human beings have failed to achieve individuality; a condition that he argues they associate with freedom and originality as well as with a kind of integrity or coherence in one’s actions and beliefs while remaining open to change and transformation.

Accordingly, he claims, in a somewhat problematic phrase, that for Emerson and Nietzsche humans do not yet exist as “fully created” (p.1). Against their shared “dream of individual power” (p. 1), Mikics points out that these thinkers judge humans to exist in unthinking conformity to the ways of speaking and acting that surround them, or as though frozen within mere repetition of the history that preceded them (and so unable to themselves become historical beings with a critical consciousness of the past as well as an open future), or as though taking themselves to be trapped within an impersonal and inexorable fate or necessity which mocks any idea of individuality or freedom.

However, while Emerson and Nietzsche each begin from the bleakest of judgments about the condition in which humans mostly exist (in “The American Scholar” Emerson speaks of humans living as bugs or spawn), their work does not merely condemn nor does it succumb to despair or pessimism. Rather, Mikics argues, their writing is largely devoted to articulating the nature of individuality, exploring why it is mostly not and how it may be achieved, and, through their writing itself, working to enable or provoke that achievement for themselves and others.

…….

Anyone interested in either working out an individualism that goes beyond those of Emerson and Nietzsche or in attempting a re-reading of Emerson and Nietzsche that establishes a greater viability for their visions, will need to grapple with, and will be helped by, Mikics work.
[Read the rest]

[This post was first published at windrosehotel.splinder.com on September 10, 2004.]