In realtà l’arcivescovo di Milano citava: le parole sono quelle di un vescovo martire dei primi tempi della Chiesa, sant’Ignazio di Antiochia, il quale a sua volta si richiamava alla Lettera agli Efesini:
Molto bella, direi. Semplice, profonda. Difficile che possa dar adito a equivoci. Vuol dire quello che vuol dire, punto e basta. Almeno così sembrerebbe a me, e invece …«Quelli che fanno professione di appartenere a Cristo si riconosceranno dalle loro opere. Ora non si tratta di fare una professione di fede a parole, ma di perseverare nella pratica della fede sino alla fine. E’ meglio essere cristiano senza dirlo, che proclamarlo senza esserlo»
Vabbè, per dire, se ne discute animatamente—et pour cause!—anche a TocqueVille: un post del Megafono ha provocato una risposta di Gino, e numerosi commenti. Da una parte, sulla scia di un’opinione abbastanza diffusa, si propende decisamente per l’interpretazioe che intravede nelle parole del cardinale un attacco ai «teocon» (in primis ai cosiddetti «atei devoti» à la Marcello Pera e Giuliano Ferrara) e ai «teodem», dall’altra il tentativo di richiamare l’attenzione sul fatto che in quelle benedette parole non c’è proprio nulla di nuovo, perché semplicemente parlano di qualcosa che è eterno e non necessita di “rivisitazioni” che ne rivelino valenze non ancora esplorate.
Personalmente propendo per una lettura vicina a quella di Gino (Mauro). Ad esempio, mi piace molto la sua precisazione:
Notare che Paolo non invita i cristiani a chiudere la propria fede in una sorta di intimismo anonimo (come piacerebbe a certi laicisti radicali…), ma dice che se uno vive coerentemente la fede non ha bisogno di proclamarsi cristiano a parole, perche’ saranno i suoi comportamenti a renderlo evidente a tutti.Molto chiaro. In realtà, a mio parere, si equivoca parecchio anche su Marcello Pera, il quale ha una posizione piuttosto limpida: non sono un credente, ma riconosco che la società non può fare a meno del cristianesimo. Opinabile, ma legittima convinzione. Io, credente, penso che se non fossi tale direi esattamente le stesse cose. Ma essendo tale, più che proclamare qualcosa cerco di essere qualcosa, come esorta il cardinale. Pera, invece, può … soltanto proclamare (che del cristianesimo non si può fare a meno): a lui non si può chiedere la coerenza invocata da Dionigi Tettamanzi (e da san Paolo). Ma, appunto, non si può fargliene una colpa. Semmai, da parte dei buoni cattolici, gli si può riconoscere la buona volontà. Chiaro, invece, che dei laicisti abbiano qualcosa da ridire: non per un fatto di “coerenza,” tuttavia, bensì perché si sentono “traditi” da uno dei loro. Ma non di tradimento si tratta, poiché trattasi di una posizione intellettualmente libera ed autonoma. Per il resto ha ragione Gino: “Se poi abbia ‘scopi personali e strumentali’ o sia sincero, questo e’ un altro discorso.”
Marcello Pera - invece - non si dichiara cristiano praticante, ma riconosce l’importanza culturale delle radici cristiane e dei valori da esse derivati. La cosa mi pare evidentemente diversa.Se poi abbia “scopi personali e strumentali” o sia sincero, questo e’ un altro discorso. Io ho l’impressione che ci creda in quello che sostiene. Cio’ non significa che gli concedo carta bianca.
En passant, per parte mia, vorrei evitare di parlare di «teocon» e «teodem». Per quanto riguarda i primi, almeno sul côté cattolico, hanno detto già tutto, e bene, gli “imputati” maggiori, cioè i Gorge Weigel, Michael Novak e Richard John Neuhaus, i quali preferiscono per se stessi la definizione, certo giornalisticamente meno accattivante, di “cattolici Whigs,” che in Italia si può tradurre con “cattolici liberali.” Certe definizioni, si sa, sono generatrici di equivoci: uno sente parlare di teocon e subito pensa a Khomeini. Ma ci facciano il piacere! Sarebbe come confondere Marco Pannella con Nerone, e magari Daniele Capezzone con Tigellino … Suvvia, un po’ di senso della misura!
P.S.: Non arrovellatevi inutilmente, il titolo del post era solo una provocazione ...