Due storici, una filosofa, un famoso vaticanista, e Otto e mezzo, stasera, ha fatto grande la televisione: Gian Enrico Rusconi, Sandro Magister (finalmente Giuliano Ferrara s’è deciso a invitarlo!), Roberta De Monticelli e Alberto Melloni (idem). Se uno voleva farsi un’idea di cosa si sta discutendo agli “Stati generali” della Chiesa cattolica italiana, on stage a Verona in questi giorni, è stato servito. Non mi sbilancio in goffi tentativi di sintesi, perché un’ora di dibattito (meno la pubblicità), a quei livelli, non è sintetizzabile. Peccato per chi se l’è persa, altro non si può dire.
Comunque le questioni fede/ragione e religione/politica stanno tirando da matti in questi mesi, grazie naturalmente al (o per colpa del) papa filosofo. Purtroppo, però, sono argomenti che poco si prestano sia alle sintesi giornalistiche sia ai dibattiti blogosferici, a mio parere. Una dimostrazione, di ciò, a voler essere “tignosi,” l’ha fornita l’articolo di Christian Rocca sul Foglio di ieri, dal quale si evincono tante cose ma nessuna che renda bene l’idea di ciò di cui ci si sta occupando …, ma è chiaro che il mestiere di cronista ha le sue regole, ovvero—se mi si passa l’espressione—le sue impudicizie, un po’, se vogliamo, come quello del blogger, anche se quest’ultimo ha meno giustificazioni, non essendo propriamente un mestiere ma un’attività teoricamente molto più libera, in quanto volontaristica (e spesso velleitaria che metà basta!), che non deve sottostare agli ordini del direttore del giornale o del capo redattore—tipo: “Fammi per domani un pezzo su questa cosa del dibattito sulla religione e la politica in America”—ma solo al libero arbitrio (e all’incoscienza) del titolare del blog.
Insomma, uno dovrebbe accorgersi quando un tema non è “a portata di mano”—per ragioni obiettive, prima di tutto, cioè di “genere letterario,” di spazio a disposizione, di contesto, ecc., e, secondariamente, nel caso (non necessariamente), per ragioni attinenti la soggettività di chi scrive, quali la propria formazione culturale, i propri interessi, capacità, attitudini, sensibilità, e così via. Il che non deve costituire un divieto tassativo a occuparsi di certe questioni, quanto piuttosto dovrebbe indurre a letture preventive molto approfondite, nonché ad una certa circospezione, ad una prudenza di gran lunga superiore a quella che si richiede quando si affrontano argomenti più leggeri.
Premesso questo, o meglio, assodato che tutto quanto sopra argomentato vale in primis per lo scrivente, faccio solo qualche strampalata riflessione a voce alta, senza alcuna pretesa, in margine alla questione del rapporto tra religione e politica, cercando di rendere l’idea di una convinzione che mi sono fatto nei mesi scorsi, dopo qualche lettura molto interessante.
Intanto devo dire che ho letto, anzi, ho «studiato», La Cattedrale e il Cubo, di George Weigel—la precisazione non è una specie di vanteria, perché semplicemente quello è un libro che, se ti limiti a leggerlo non ci capisci un beneamato tubo. E’ un libro fatto di (e su) altri libri, di citazioni, confutazioni, rimandi, diramazioni, analisi e sintesi di altri scritti, un libro fatto a strati che potrebbe essere riscritto ricavandone una ventina di altri saggi, più o meno uno per capitolo dell’attuale volume, tanto è “concentrato” e nel contempo, a tratti, puntuale fino alla pignoleria (a prescindere dal fatto che possa avere o non avere qualche bug metodologico o di contenuto), un libro che spazia tra filosofia, teologia, storia passata e recente, politica, sociologia, demografia, e probabilmente qualche altra disciplina che adesso mi sfugge. E’ un libro di sole 145 pagine! Tutto questo “soltanto” per dimostrare che c’è qualcosa (a dir poco) che non va in Europa, dove la politica è senza Dio e si erigono stramaledetti “cubi” non solo a Parigi (la Grande Arche de la Défence), in nome della laïcité, mentre negli States, dove Dio, in politica, c’è eccome (e qualcuno potrebbe anche essersi convinto che talvolta se ne faccia persino un uso “smodato” e “indebito”), tutto va bene o quasi. Cosa salverei di questo libro? Detto con simpatia, quasi tutto, meno la tesi di fondo dell’Autore… Mi spiego (si fa per dire).
Non mi piace neanche un po’ l’ostracismo a cui in Europa si vorrebbe condannare il cristianesimo. Ancor meno, ovviamente, mi piace la «cristofobia» denunciata da Weigel, sulla scia—a proposito di libri fatti di libri!—di Joseph Weiler, direttore del Jean Monnet Center, e del suo Un’Europa cristiana. Un saggio esplorativo, un libricino pubblicato alla fine del 2003, nel quale, pur riconoscendo l’assurdità storica di voler estirpare il cristianesimo dalla storia culturale dell’Europa moderna, si cerca di contrastare i laicisti europei sul terreno perfettamente “laico” della filosofia del diritto e della filosofia politica.
Detto questo, non credo che la salvezza spirituale (e di conseguenza quella politica) possa venirci dall’altra sponda dell’Atlantico. Per tante ragioni, la prima delle quali è—come Weigel non esita a riconoscere—la differenza abissale tra la storia e le tradizioni degli Stati Uniti e quelle dell’Europa, che si traduce nella non esportabilità di certe attitudes of mind tipicamente americane, alcune delle quali invidiabili, altre un po' meno, nel nostro contesto. In secondo luogo—ma in forma assai più dubitativa che assertiva—resto piuttosto perplesso sul preteso gap di religiosità e di moralità pubblica e privata tra la Old Europe e la patria di Thomas Jefferson, se si tiene conto dell’intero panorama americano, che presenta anche scenari un po’ diversi da quelli cui George Weigel fa riferimento. Per parte sua, va detto, lo stesso Weigel, non manca di sottolineare le contraddizioni del suo Paese.
Insomma, la “lezione” che, sia pure con grande intelligenza e sulla scorta di una sincera preoccupazione per le sorti dell’Europa, George Weigel ci ha voluto impartire con il suo libro fatto di tanti altri libri può valere fino a un certo punto, o meglio, vale per gli Usa—con la loro specificità e con quella che viene correntemente definita l’«anomalia americana», più nel bene, complessivamente, che nel male—più di quanto possa valere per l’Europa. Ecco perché affannarsi a rincorrere modelli americani serve a poco, se non è addirittura una perdita di tempo e uno spreco di energie.
Un po’ come accade, sul terreno puramente politico, quando si sbandiera la Right Nation e la si vorrebbe riprodurre nel nostro contesto. Un’altra lettura (studio) interessante della scorsa estate è stata La Destra Giusta, traduzione di The Right Nation, lo splendido malloppone di quasi 500 pagine scritto da John Micklethwait e Adrian Wooldridge. Alla fine del libro uno vorrebbe andare a vivere laggiù, non tanto perché da quelle parti sono “giusti” perché di destra o di destra perché giusti, ma solo perché quella è l’America, un posto dove una buona idea la puoi realizzare solo perché funziona meglio di tutte le altre, anche se ti suona male, tanto poi si può sempre tornare indietro e amici come prima. Ma da noi? Quando uno legge di come le classi dirigenti cambiano in fretta in America ci si può anche illudere, per un attimo, che noi si possa fare altrettanto, ma poi ti svegli e trovi Andreotti, De Mita, Prodi, … sempre loro, sempre gli stessi, dopo trenta, quaranta, cinquant’anni, e capisci che noi siamo nella vecchia Europa, anzi, nella decrepita Italia.
Poi ho letto Neocon e teocon, di Flavio Felice, direttore dell’Istituto Acton di Roma. Un volumetto volutamente molto più abbordabile di La Cattedrale e il Cubo, ma non del tutto privo di complicazioni (e vorrei vedere il contrario!).
Il guaio della blogosfera e dei giornali è che è così improbabile che si discuta di libri dopo averli letti e meditati. E questo post, per chi non avesse ancora afferrato, è appunto una calorosa esortazione ...