A proposito di ciò che possiamo considerare «storico», comunque, Vittorio Messori ha detto la sua egregiamente sul Corriere del primo dicembre. In sostanza, il grande giornalista-scrittore cattolico esorta appunto a non scomodare la storia, e bacchetta implicitamente i tre quarti della carta stampata italiana. Quello che mi piace di più, in Messori, è proprio questa vocazione irrefrenabile a collocarsi qualche miglio lontano dal coro, mantenendo, a volte, un understatement tanto apprezzabile quanto scorbutico …, segno inconfondibile di onestà intellettuale. L'incontro tra Benedetto XVI e Bartolomeo I, patriarca di Costantinopoli, insomma, non rappresenta nulla di eccezionale, e Messori spiega molto bene perché, ricorrendo naturalmente a solide argomentazioni storiche. In particolare, a suo avviso,
[n]on si può certo mettere tra le novità la constatazione — ovvia per un cristiano—che l'uccidere in nome di Dio non è un omaggio all' Onnipotente bensì la peggiore delle bestemmie. È un richiamo, evidentemente, all'estremismo islamista, per il quale omicidio e suicidio sono sì condannati dal Corano, ma sarebbero meritori se compiuti nella lotta per la causa di Allah.
Caso mai, suggerisce Messori, bisognerebbe allargare la prospettiva e dar retta al professor Nicola Bux (docente di ecumenismo e consultore della Congregazione della Fede), secondo il quale destinatari del “messaggio” sarebbero, oltre che i musulmani, le
autorità dei Paesi dove l'ortodossia è maggioranza e dove la religione si mescola con il nazionalismo, riducendo nei fatti a cittadini di serie inferiore coloro che aderiscono ad altre confessioni cristiane, a cominciare dai cattolici.
Analisi altrettanto stimolanti, hanno svolto Gianni Baget Bozzo e Sandro Magister, i quali, mi sembra, concordano sostanzialmente sul senso complessivo del viaggio pontificio: l’accento posto sulla libertà di coscienza. Mentre, però, Gianni Baget Bozzo ha svolto un ragionamento più che altro geo-politico, il vaticanista dell’Espresso si è mantenuto sul terreno filosofico. Il che rende ancor più convincente l’identica conclusione.
Magister ha messo molto bene in evidenza, in particolare, la continuità tra la lectio magistralis di Ratisbona e la visita in Turchia. Una continuità che si è espressa non soltanto con le parole pronunciate dal Papa, ma anche, e forse soprattutto, con i «gesti», lasciando intravedere, tra l’altro, quanto Joseph Ratzinger stia facendo tesoro della grande lezione del suo predecessore.
Nel giorno della festa di sant’Andrea Benedetto XVI è entrato nella Moschea Blu di Istanbul con la croce di Gesù ben in vista sul petto, ha sostato davanti al mihrab rivolto alla Mecca, ha pregato in silenzio a fianco del gran mufti che sussurrava le parole iniziali del Corano: tutto questo ha fatto con la libertà e la chiarezza scolpite dalla sua lezione di Ratisbona. Ma un gesto non meno simbolico è stato, poco prima, l’ingresso del papa in Santa Sofia, oggi museo e in precedenza moschea e prima ancora chiesa cattedrale del patriarcato di Costantinopoli, nella terra in cui è fiorito il primo cristianesimo. In Santa Sofia Benedetto XVI non si è raccolto in preghiera, non ha ripetuto il gesto di Paolo VI qui in visita nel 1967.
Tutta da interpretare—ma non è difficile—questa gestualità: un profondo rispetto, quasi eroico, perfino, per la religione degli altri.
Quanto alla filosofia, assunto che “la vera meta del viaggio” è “Pietro che visita Andrea,” vale a dire: “il successore del primo degli apostoli che abbraccia il successore dell’altro apostolo, missionario tra i greci,” il messaggio che il Pontefice ha voluto trasmettere è trasparente, così come la continuità, appunto, con Ratisbona, cioè con la rivendicazione dell’incontro tra il Vangelo e il Logos:
L’apostolo Andrea – ha ricordato Benedetto XVI – “rappresenta l’incontro fra la cristianità primitiva e la cultura greca”. E cos’è questo se non l’incontro tra il Vangelo e il Logos, che era il cuore della lezione di Ratisbona? Il dialogo “secondo ragione” tra il cristianesimo e le altre religioni, in primo luogo l’islam, è per Benedetto XVI indissolubilmente legato alla ricerca dell’unità tra i cristiani. E il dialogo “secondo ragione” con l’islam esige, appunto, che sia sciolto ogni legame tra fede e violenza. Nelle sue omelie e nei discorsi in Turchia, papa Joseph Ratzinger ha incessantemente reclamato la libertà di religione. Con ripetute menzioni ai martiri – anche di oggi, come don Andrea Santoro – che hanno dato la vita per aver pacificamente testimoniato la loro fede cristiana.
Magister conclude riportando per intero le considerazioni svolte da Benedetto XVI il 30 novembre dopo aver assistito alla Divina Liturgia di San Giovanni Crisostomo celebrata da Bartolomeo I nella chiesa patriarcale di Costantinopoli. Un discorso, osserva il vaticanista, che sintetizza efficacemente il pensiero del Papa. Ovviamente, si tratta di una lettura molto raccomandabile.
Un ultimo punto da considerare sul viaggio del Papa è il contesto geo-politico nel quale si è svolto. Se n’è occupato, come dicevo prima, don Gianni Baget Bozzo, che ha sintetizzato così la situazione:
Il problema turco è grave per l'Europa, perché la Turchia è parte fondamentale dell'equilibrio occidentale europeo e al tempo stesso è profondamente diversa dall'Europa non solo per la sua religione musulmana, ma per la sua forma singolare di secolarità. Il rigetto dell'integrazione della Turchia nell'Unione Europea potrebbe rappresentare una grave crisi nel Paese, mettendo in dubbio la stessa giustificazione della laicità turca che si legittima con la necessità di legare la Turchia all'Europa e all'Occidente. Ciò spingerebbe la Turchia verso l'identità islamica politica, e questo è il rischio della trattativa. D'altro lato, solo l'adesione all'Unione Europea potrebbe rafforzare i diritti del singolo, e quindi la libertà religiosa, all'interno della società turca come la Chiesa chiede.
A questo aggiungiamo il clima di tensione che ha fatto seguito alla lectio di Ratisbona, comprese le minacce dei gruppi estremistici turchi e di Al-Qaeda. Ebbene, ha scritto Baget Bozzo, Benedetto XVI avrebbe potuto non andare, “prendere atto che non esistevano le condizioni politiche del suo viaggio e sollevare così un autorevole dubbio sulla libertà religiosa garantita dallo Stato secolare turco,” e invece ha preso la decisione più coraggiosa che poteva prendere, è andato e non ha negato il suo sostegno alle speranze turche riguardo all’Europa (“un atto di carità verso il popolo turco”) e l’incoraggiamento verso tutti coloro che, come i cristiani cattolici, ortodossi e armeni, si aspettavano dal suo viaggio “un aiuto al loro difficile statuto di cristiani che vivono in Turchia.”
Insomma, non è solo per motivi filosofici o teologici se questo viaggio è stato un successo, e lo è stato sicuramente: il coraggio di Joseph Ratzinger non è stato meno determinante. Chissà, tra l’altro, se il Papa aveva messo nel conto che l’Europa avrebbe anunciato la sospensione della trattativa con la Turchia per l’ingresso di quest’ultima nell’Unione proprio durante il suo viaggio, aggiungendo tensione a tensione, rischi a rischi. La Ue, a ben vedere—e malgré soi, vien fatto di pensare—, ha contribuito non poco a ingigantire il successo di un’impresa che all’inizio sembrava quasi disperata.