Ecco perché, quando da qualche parte si leva una voce più moderata nei toni, più pensosa e, diciamo, “dubbiosa,” cioè non appesantita da dogmatismi di varia provenienza, per non parlare degli schematismi e delle semplificazioni di comodo, ci si sente un po’ più a proprio agio, esseri umani tra esseri umani, cioè gente che non ha, per così dire, la verità in tasca e si barcamena con infinita umiltà tra incertezze e dubbi angosciosi.
Oggi, per dire, si offrono alla lettura due contributi al dibattito che meritano, a mio avviso, di essere portati ad esempio di come bisognerebbe—e di come evidentemente è possibile—affrontare il caso Welby. Si tratta di due riflessioni che non approdano alle stesse conclusioni, anche perché una proviene dalla gerarchia cattolica e l’altra dal campo laico: quella del cardinale Esilio Tonini (intervista a Repubblica, che riproduco qui sotto non essendo disponibile se non a pagamento e per gli abbonati) e quella della bioeticista dell'Università di Genova Luisella Battaglia, che è anche membro del nuovo Comitato nazionale per la bioetica.
Nell’impostazione del breve scritto di Luisella Battaglia è pressoché assente qualsiasi condizionamento di tipo “ideologico.” La studiosa parte dall'articolo 5 della Convenzione di Oviedo sui diritti dell'uomo e la biomedicina (1997), ratificata dal Parlamento nel 2001:
«Nessun intervento in campo sanitario può essere effettuato se non dopo che la persona cui esso è diretto abbia dato un consenso libero e informato. (...) La persona cui è diretto l'intervento può, in ogni momento, ritirare liberamente il proprio consenso».
Quindi richiama l'articolo 32 della Costituzione, che viene “rielaborato” come segue:
Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento. Nessuno può essere sottoposto a una cura che rifiuti.
(In realtà l’articolo dice che «Nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sanitario se non per disposizione di legge. La legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana.» Il che, mi sembra, rende le cose un po’ più complicate …)
Su un piano estremamente concreto, la Battaglia richiama due casi assai significativi:
a) quello della signora che rifiutò l'amputazione della gamba, scelta che, come era chiaro fin dal principio, l'avrebbe portata inevitabilmente alla morte, e così fu infatti. “Nessuno l'ha potuto impedire, come nessuno—ricorda ancora la studiosa—può impedire a un testimone di Geova di rifiutare le trasfusioni di sangue;”
b) quello di Giovanni Paolo II, che rifiutò il secondo ricovero al Gemelli e chiese di poter «tornare alla casa del Padre». “Anche Welby—osserva la Battaglia—vuole tornare a casa.”
Ed ecco il cuore del ragionamento di Luisella Battaglia:
Dovremmo chiederci perché sia così difficile, nel nostro Paese, ottenere il rispetto dei diritti fondamentali delle persone. Negando il diritto di Welby all'autodeterminazione, si è di fatto restaurato un vecchio paternalismo medico che, con il pretesto della cura compassionevole, pretende di imporre la sua idea di "bene" in conflitto con quella del singolo individuo. "Prendersi cura" non significa sempre e solo tenere in vita a ogni costo, ma assumersi talora la responsabilità condivisa di accompagnare la vita al suo naturale compimento. Si confrontano due visioni del medico: l'una "bellicista", che lo vede come un generale alla guida di un esercito in guerra contro la malattia; l'altra, riconciliata con l'immagine tradizionale, che lo vede anche come quel "nuncius mortis" che accompagna amorevolmente al trapasso, accettandone l'inevitabilità.
[Il corsivo è mio]
Ebbene, anche se personalmente, in linea di principio, sono fermamente contrario all’eutanasia, devo dire che l’approccio della studiosa genovese mi dà molto a pensare. Anche perché, onestamente, non mi sembra—ma può darsi che io mi sbagli, per carità—che la decisione da prendere sul caso Welby abbia molto a che fare con l’eutanasia.
La riflessione del cardinal Tonini è altrettanto pacata, ma, almeno in un certo senso, più “dialogante,” e perfino più “dubbiosa,” intrisa di umana compassione e comprensione. E’ una delle più toccanti interviste che mi sia mai capitato di leggere. Non certo solo per questo, ma sicuramente anche per questo, il ragionamento dell’Arcivescovo emerito di Ravenna, e, direi, soprattutto il metodo, cioè il suo approccio alla questione etico-giuridica e al dramma umano di Piergiorgio Welby, mi sembra assai persuasivo. In una parola, mi ci riconosco in pieno, a cominciare dalle prime parole pronunciate da monsignor Tonini:
«Vorrei andarlo a trovare, stargli vicino, ricordandogli la preziosità della sua vita e condividendo la sua pena. E´ una questione di una difficoltà estrema e la cosa più complicata è passare dal piano dei principi alla situazione concreta e alle decisioni su cui ci si interroga».
Il resto dell’intervista non è da meno. Lo affido "fiducioso" alla riflessione di ciascuno:
«Vorrei andarlo a trovare, stargli vicino, ricordandogli la preziosità della sua vita e condividendo la sua pena». Il cardinale Ersilio Tonini risponde con un moto umano a chi gli domanda un giudizio sul caso Welby. «E´ una questione di una difficoltà estrema - spiega - e la cosa più complicata è passare dal piano dei principi alla situazione concreta e alle decisioni su cui ci si interroga».
Cardinale Tonini, c´è un uomo che chiede che non gli venga prolungata artificialmente una vita, fatta solo di sofferenza.
«Mi viene da dire che se qualcuno esprime il desiderio di affrettare la fine della propria pena, non è peccato. Anzi, può essere anche un desiderio sano. Però...». Però?«C´è un principio a cui non possiamo sfuggire. La vita è un dono, è sacra, è intangibile. Lo riconoscono praticamente tutti, non solo i credenti, anche non
credenti come Kant».Perché cita il filosofo tedesco?
«Kant afferma che il suicidio è una cosa spaventosa, perché persino un albero percosso o una bestia ferita hanno l´impulso alla conservazione. Chi arriva a pensare di poter disporre della vita propria finisce per credere di disporre delle vite altrui. Così l´uomo da fine viene ridotto a strumento».
Eminenza, la Chiesa ha già maturato una posizione avanzata: rifiuto dell´eutanasia, ma anche rifiuto dell´accanimento terapeutico. Con l´appello di Welby camminiamo su un crinale, dove emerge la richiesta di non essere condannati ad una vita che non esisterebbe se non fosse per una macchina.
«La questione va studiata approfonditamente. E´ chiaro che l´accanimento non è ammesso e d´altra parte non è ammessa l´interruzione di una vita. Non penso solo alla dottrina cattolica, mi rifaccio alle legge italiana sui trapianti, estremamente rigorosa nelle procedure di espianto: per impedire che per salvare una vita se ne sacrifichi un´altra».
Che c´entra la legge sui trapianti?
«Per sottolineare che bisogna stare attentissimi nel prevedere le motivazioni di una decisione. Se noi legittimiamo l´interruzione di una vita con motivazioni, che non siano molto ponderate, rischiamo di aprire la strada a precedenti giuridici pericolosi».
La Procura di Roma ha stabilito che il paziente ha il diritto di interrompere il trattamento non voluto, ma contemporaneamente non si può ordinare al medico di non ripristinarlo se lo ritiene necessario.
«Esattamente. Qui entra in gioco il dovere professionale basato sul giuramento di Ippocrate. Il medico non può diventare a suo volta uno strumento, se ritiene che vi sia una speranza. Ma non mi nascondo nemmeno che qui siamo in presenza di una vera e propria tensione all´interno del sistema giuridico».
Un dilemma?
«Tra il popolo vi è una diffusissima contrarietà all´eutanasia. Eppure quando si passa dal piano dei principi al giudizio su un caso concreto, quando va detto un sì o un no, riconosco la difficoltà di definire confini precisi. Tanti medici sanno che arriva il momento in cui la medicina è perfettamente inutile, però non rinuncerebbero a dare da bere al paziente o a farlo respirare».
Se lei lo avesse di fronte?
«Io Welby lo capisco, ma prima di agire bisogna pensarci dieci volte. Potrei essere tormentato per sempre, pensando di essere stato io a togliergli la vita. Lo sa che lui mi ha scritto?».
Welby le ha mandato una lettera?
«Anni fa. Rispose ad un mio articolo, dissentiva, ma la sua lettera aveva un tono un po´ scherzoso. Sento ancora l´eco di una sua ironia gioiosa, il gusto di discutere insieme. Perciò provo un disagio infinito di fronte alla vicenda. Ho ancora dinanzi a me quel suo modo di esprimersi sereno e vivace».