[Attenzione, questo è un post piuttosto lungo. Me ne dispiace, ma proprio non mi è stato possibile sintetizzare. Anzi, a me sembra fin troppo sintetico, dato il tema. Di questo, forse, dovrei dispiacermi ancora di più.]
Tra giovedì e venerd' scorsi, cioè tra un articolo di
Gianni Baget Bozzo sul
Giornale ed uno di
Antonio Socci su
Libero, il dibattito sul dopo
Family Day si è arricchito e, nel contempo, complicato. Sì, perché le due analisi mi sono sembrate tanto stimolanti quanto contrapposte. Dunque, i due ragionamenti sono l’ideale per lasciarsi confondere un po’ le idee—strategia sempre efficacissima per arrivare a un risultato apprezzabile …—e consentirsi un discreto ampliamento di orizzonti.
La questione, sicuramente, è cruciale, il momento è topico, e il
Family Day, ovviamente, c’entra poco (e meno ancora i “Dico”), perché il punto—che poi è in realtà un groviglio di punti—è un altro: le fede e il suo rapporto con «il secolo», cioè la «verità» e la sua convivenza con la non-verità del secolo, il tutto nelle più svariate declinazioni e rappresentazioni.
A dire il vero, Baget Bozzo ha parlato soprattutto del momentaccio che stanno attraversando i rapporti tra i ds e la Chiesa (perché “la linea filocattolica che risale al Pci viene meno man mano che sul piano europeo la linea anticattolica diviene un patrimonio della sinistra”), ciò non toglie, però, che il ragionamento sia molto interessante anche da quell’altro punto di vista. Infatti, don Gianni pone—giustamente, a mio avviso—all’origine dello “strappo” un cambiamento profondo avvenuto in seno alla Chiesa in questi ultimi anni: lo spostamento dell’attenzione dai temi sociali a quelli morali, con un ritorno in grande stile dello “spirito di tradizione,” cioè della fedeltà alle radici. Ma è proprio a questo punto, aggiungerei, che troviamo il groviglio di cui parlavo prima: se dal sociale si passa alla morale, ecco che radici, tradizioni e identità conducono il confronto su un terreno difficilmente praticabile da parte di chi, appartenendo a una tradizione filosofica e culturale laica, scientista, materialista, ecc., non può che avvertire un certo disagio (per non dire fastidio) nel confrontarsi con una tradizione al centro della quale vi è una «verità» che si colloca oltre lo Stato, la scienza e la materia, e che, tuttavia, «fonda» e dà senso ai precetti morali (sui quali si dovrebbe cercare di trovare una qualche intesa).
A questo punto la riflessione di Socci giunge assai utile. Al di là di alcune considerazioni un po’ estremistiche, che appartengono allo stile polemico e al bagaglio culturale del ciellino Socci, mi sembra interessante il ribaltamento della questione che viene proposto. Socci, cioè, non pensa affatto che la “guerra dei Dico” sia uno scontro “fra guelfi e ghibellini, fra laici e cattolici,” secondo lui, infatti, si tratta innanzitutto di una guerra fra cattolici, di “una drammatica spaccatura ecclesiale che cova sotto la cenere da tre decenni.” Infatti,
[a] firmare i Dico - per il governo del dossettiano Romano Prodi - è quella Rosy Bindi che viene dalla presidenza dell'Azione Cattolica Italiana, una che è entrata in politica nella Dc proprio come "rappresentante" del mondo cattolico e fiduciaria dei vescovi. E l'estensore materiale della legge è Stefano Ceccanti, oggi capo dell'Ufficio legislativo del ministero per i Diritti e per le Pari opportunità, ma ieri presidente della Fuci, la "fucina" dell'establishment "cattolico democratico". Non solo. Proprio Ceccanti ha svelato che l'articolato dei Dico si ispira al cardinal Martini. Testuale: «II cardinale Carlo Maria Martini, in un bellissimo discorso pronunciato alla vigilia di Sant'Ambrogio del 2000 diceva che sulle coppie di fatto "l'autorità pubblica può adottare un approccio pragmatico e deve testimoniare una sensibilità solidarista". E concludeva: "Al vertice delle nostre preoccupazioni non deve esserci il proposito di penalizzare le unioni di fatto, ma sostenere le famiglie in senso proprio". Questi sono i canoni di Martini che di fatto andiamo a proporre» (La Stampa, 11.12.2006).
Se le cose stanno così, prosegue Socci,
[r]esta da capire se per la Chiesa ha senso, mentre si indebolisce la fede vissuta e la dottrina ortodossa, proiettare in battaglie culturali e politiche esterne (contro i "laicisti") quel raddrizzamento della fede cattolica che non si osa operare per via diretta […].
Attenzione, l’obiezione è forte, ma, provenendo da un ciellino, non è sorprendente: è la riproposizione della vecchia polemica nei confronti dell’Azione Cattolica e della Fuci, cioè dell'
establishment cattolico democratico, quello fino a ieri più protetto e sponsorizzato dai vescovi italiani. E tuttavia, se non sbaglio, riproporre oggi la polemica ha paradossalmente un significato distensivo nei confronti dei laici … Da questo punto di vista la provocazione può essere utile, perché dalla contrapposizione frontale laici-cattolici possono nascere solo problemi. Per cui non sarebbe male se Socci avesse ragione. Ma, a parte gli auspici, è molto probabile che egli sia effettivamente nel giusto, o meglio, che abbiano ragione sia Socci sia Baget Bozzo: le due chiavi di lettura, infatti, non si escludono a vicenda. Perché mai dovrebbero? Lo scontro all’interno della Chiesa inevitabilmente si riverbera nel dibattito laici-cattolici.
Ma c’è un altro strale contro il partito—se ce n’è uno—dello scontro frontale: a rincorrere “un’influenza culturale e politica sui costumi” la Chiesa corre un rischio enorme, quello di considerare il cristianesimo come “il sistema supremo dei valori umani,” a dispetto del fatto che, come osservò Romano Amerio, “la Chiesa è per sé santificatrice e non incivilitrice e la sua azione ha per oggetto immediato la persona e non la società.” Sono concetti che, alle orecchie di tutti coloro i quali auspicano una religione meno «pubblica» e più «privata», devono suonare più dolci del miele.
E’ evidente che Socci, quando vuole, sa essere spiazzante. Ma, onde evitare che nella mente di qualcuno possa insinuarsi il sospetto di una “apostasia” socciana rispetto alla linea della Chiesa italiana, il Nostro, preso atto che, a causa del conflitto che lacera dall’ interno la Chiesa, il successo del
Family Day non deve indurre al trionfalismo, invita a prendere sul serio ciò che il cardinale Ratzinger ebbe a dire una volta: «Non è di una Chiesa più umana che abbiamo bisogno, bensì di una Chiesa più divina; solo allora essa sarà anche veramente umana». Il che, lascia intendere Socci, dovrebbe significare più o meno questo: non innalziamo barricate contro i laici, facciamo piuttosto (prima) i conti con quel «pensiero di tipo non-cattolico» che—per citare la preoccupazione che Paolo VI manifestò a Jean Guitton nel lontano 1977—«sembra talvolta predominare all'interno del cattolicesimo». Del resto, ricorda Socci, la frase più drammatica di Gesù nel Vangelo è questa: «Quando il Figlio dell'Uomo ritornerà, troverà ancora la fede sulla terra?»
E tuttavia …, tuttavia qualche differenza c’è tra l’impostazione ratzingeriana (e ruiniana) e quella ciellina. Mettere ordine all’interno della Chiesa non basta a Benedetto XVI, il Papa-filosofo, e questo non tanto per ragioni
politiche quanto perché è la questione della «verità» che sta a cuore soprattutto al Pontefice. Una verità che non riguarda solo le coscienze dei credenti, ma l’umanità tutta intera, perché per un filosofo non c’è umanità senza verità, e non c’è verità senza «ragione». Qui, ovviamente, il discorso si complica e per un post diventa davvero troppo complesso. Ma un accenno credo di poterlo fare, senza troppe pretese, chiamando in soccorso la prefazione che Giuliano Ferrara ha scritto per il
Manifesto dei conservatori, del filosofo inglese Roger Scruton, da domani in libreria (la prefazione è stata pubblicata in anticipo sul
Foglio del 17 maggio):
Allargare lo spazio della ragione, sottraendola allo strumentalismo tecnico dello scientismo e all’estetismo superomista nicciano, è il compito di buonsenso, di senso comune, di realismo che un conservatore deve assolvere. Se il manifesto che offre la possibilità di adempiere a questo compito va dal discorso di Ratisbona di Benedetto XVI al pamphlet e all’insieme del lavoro di Roger Scruton, bisogna dire che siamo sulla buona strada: è in atto, che lo si sappia o no, un’alleanza destinata a rivelarsi efficace tra un pensiero europeo-tedesco, che nasce nel cuore della filosofia e della teologia continentale, e che è erede dell’ellenizzazione e del diritto romano, e un pensiero anglo-sassone scaturito dalla common law, dal diritto consuetudinario, dall’idea che lo stato non debba essere un Moloch laico che impone una sua ideologia secolarista, ma uno strumento legale per risolvere conflitti sociali secondo il metro e la misura del buonsenso storico e filosofico, illuminato da un giusto rapporto, il Criterio, tra morale e legge.
Forse, dico
forse, quello che sfugge a Socci (o che lo preoccupa) è appunto quell’alleanza tra un pensiero europeo-tedesco e un pensiero anglo-sassone scaturito dalla
common law …