intervento o non intervento, l'Iraq era comunque predestinato a essere travolto dal caos. Questa tesi è corroborata da un'altra constatazione, e cioè che lo sgretolamento politico avanzava già con prepotenza nel decennio precedente il 2003. Di nuovo, la sobria analisi di Allawi, basata su prove accurate, contribuisce ad aggravare uno scenario in sé già assai fosco.
La politica americana non poteva restare indifferente davanti a tutta questa sofferenza, miseria e demagogia, se non altro perché l'intero contesto iracheno era stato plasmato da due decisioni americane. La prima, di lasciare Saddam al potere dopo il '91 e restare a guardare mentre massacrava sciiti e curdi, un'azione che Allawi definisce giustamente «imperdonabile». La seconda, di imporre sanzioni, le quali, per la loro eccessiva durata, hanno recato danni peggiori a una società già duramente travagliata che non al suo governo spietato e corrotto.
Nessuno meglio di me è al corrente di tutti i fallimenti della nostra politica dopo-invasione, e potrei aggiungere anche altre osservazioni in base alla mia esperienza. Ma ho sempre sentito profondamente che l'Iraq è nostra responsabilità in un modo o nell'altro, e che rinunciare all'intervento o rimandarlo avrebbe significato solo essere costretti ad agire successivamente, in condizioni forse più spaventose e pericolose di quelle che ci sono diventate familiari. Non so se Allawi sarebbe d'accordo con la mia valutazione, ma il suo libro, lucido e coinvolgente, presenta argomenti che sarebbe molto difficile contestare.
May 24, 2007
Vincere la guerra e perdere la pace
Il Corriere ripropone in traduzione italiana un articolo di Christopher Hitchens per il New York Times. La riflessione è ispirata dal libro di Ali Allawi, The Occupation of Iraq: Winning the War, Losing the Peace (L'occupazione dell'Iraq: vincere la guerra, perdere la pace), che è “scritto con la mente e con il cuore” e “merita tutta l'attenzione e i numerosi riconoscimenti che gli sono stati tributati.” Il succo del discorso è che
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