Ci domandiamo, dall’alto della nostra gloriosa secolarizzazione,
come sia possibile che i seguaci del Pacifico Buddha scommettano sulla liberazione di un popolo anziché perdersi nella rarefazione del Nirvana, nella ricchezza di un vuoto assoluto così distante dall’umano.
E per lo più non ci aspettiamo che la vecchia storia del «male minore» valga anche per i monaci buddisti, o che “la morale primaria del «non uccidere una vita»” possa autorizzare, anzi, possa consigliare di battersi contro gli assassini “con tenacia guerriera” e, nel contempo, “impersonalità sacerdotale.” Ed ecco che Alessandro Giuli ci ricorda che il Buddha stesso discendeva da una casta guerriera, quella dei kshatrya. E che “fu proprio lui, in un’incarnazione precedente, a uccidere un uomo per impedirgli di massacrarne cinquecento.”
E poi ci sono storie antiche e bellissime, come quella dell’ aspirante discepolo che una notte
andò a bussare con gentilezza alla casa di un altro maestro e per una due tre volte venne respinto con la porta schiacciata sul viso; finché alla quarta, senza dire una parola, decise di centrare con un pugno il muso del maestro e fu così ricevuto. L’ardore marziale nell’agire senza agire.
Storie di un altro mondo, senza dubbio, ma un mondo che un tempo fu anche il nostro, perché—come avrebbe potuto ricordarci il nostro opinionista nonché lettore di Evola (e Guénon, suppongo), se solo avesse avuto più spazio—la Tradizione è una, sia pure con le sue molteplici incarnazioni e le sue infinite sfaccettature. Storie di un Oriente che ha prodotto, sul côté induistico, la Bhagavad-gita (Canto del Beato), il capitolo più famoso e amato del Mahābhārata e l'essenza stessa della conoscenza vedica. Dove ad Arjuna, l’eroe, è Krishna a rammentare i suoi doveri di kshatrya—e la sua via verso l’immortalità—nel momento che precede l'inizio di una guerra orribile. L’eroe si è lasciato prendere dallo sconforto, non se la sente di combattere. E Krishna gli spiega come superare la terribile impasse, cioè come liberarsi, pur agendo, “dai legami dell’azione,” vale a dire il “metodo dell'azione compiuta senza attaccamento al risultato” …
Combatti per dovere, senza considerare gioia o dolore, perdita o guadagno, vittoria o sconfitta — così facendo non incorrerai mai nel peccato. [2, 38]
Ecco, forse anche di questo ci avrebbe fatto omaggio Alessandro Giuli se il Direttore gli avesse concesso un’intera pagina. Sarà per un’altra volta? Per il momento accontentiamoci di questa conclusione, che svela definitivamente l’arcano e impartisce una lezione memorabile a tutti i Christopher Hitchens di questo mondo:
Il perfetto buddista è il risultato di un ardore marziale nella propria misura e attivo nella propria immobilità. Perciò può scegliere di marciare incolonnato ai fratelli in abito purpureo, sotto la pioggia calda di Rangoon e sotto i manganelli dei salariati in divisa militare. Il suo semplice esserci è un atto rivoluzionario, il suo resistere (anche proteggendo con il corpo gli altri manifestanti) è un agire-senza-agire che diserta il moto accessorio per concentrarsi sull’essenziale. La libertà è l’essenziale. Anche in Birmania.
solidarietà
ReplyDeleteFree Burma!
ReplyDeleteI media italiani hanno scoperto la Birmania, questo bellissimo paese con immense risorse naturali (è il primo produttore di teak al mondo e ha importanti giacimenti strategici di gas e peterolio) grazie agli avvenimenti odierni che sucitano l’unanime e vibrata protesta da parte dell’opinione pubblica internazionale.
ReplyDeleteD’accordo, quello che sta succedendo è deplorevole sotto tutti i punti di vista, ma bisogna evitare di dare un giudizio frettoloso di condanna a senso unico contro la giunta militare al potere, come sembra fare la maggior parte dei commentatori, senza conoscere la realtà della situazione politica ed economica del Paese fino ad oggi ai margini della comunità internazionale.
L'articolo
Mango, ripropongo qui il commento che ho lasciato sul tuo blog.
ReplyDeleteHai sicuramente scritto cose meritevoli di riflessione e della massima attenzione, ma non credo di poter condividere la tua tesi.
E’ chiaro che la situazione birmana è maledettamente complessa e che le cose non si risolvono a colpi di slogan, ma è altrettanto vero che, se è un principio sacrosanto e universalmente valido che i popoli debbano essere lasciati liberi di decidere il proprio destino, nessuno, in base a qualsivoglia interesse, realpolitik e quant’altro, può contestare al popolo birmano la scelta di scendere in piazza.
Non solo: è semplicemente inammissibile che non si faccia nulla, in Occidente, per sostenere quel popolo, e, a fortiori, che si prenda posizione in difesa del regime tirannico che opprime quel medesimo popolo.
Che poi le sanzioni siano la strada giusta è tutto da vedere: io personalmente non ci credo. Sono altrettanto convinto, tuttavia, che un regime come quello birmano sia difficilmente riformabile. Ma se lo fosse non mi straccerei le vesti.
Il punto, insomma, è il cambiamento necessario, le modalità si possono discutere. Un sano realismo, di norma, non è irriducibilmente in contrasto con principi e ideali irrinunciabili, ma arrendersi allo status quo per paura di provocare “grane” lo trovo inaccettabile. Moralmente, “filosoficamente” e politicamente. Ciao
il Mahabharata è un testo splendido!!
ReplyDeleteil punto che indichi è di altissimo valore anche se io preferisco il passo de la "caduta di Bhishma"
saluti
illuministi e di Sinistra :-)
p.s.
si, il titolo del mio blog è dedicato (ed ha un "errore" )