October 3, 2007

Birmania: sanzioni, ma non solo

Ma le sanzioni servono a qualcosa? E’ un interrogativo ricorrente. Se ne discute ogni qualvolta nel mondo accade quello che non dovrebbe mai accadere e in tutti quei casi in cui il dialogo, anche ai massimi livelli internazionali, si è rivelato sterile, quando il lavorio diplomatico, le proteste ufficiali o addirittura le minacce hanno fallito miseramente. Ovvio che il tema sia di strettissima attualità nel caso Birmania. Ma di sanzioni da parte dell’Onu, nella fattispecie, non se ne parla nemmeno, visto il veto di Pechino, l’altolà di Mosca nei confronti di chi pretenderebbe “interferire negli affari interni” di quel Paese, e le orecchie da mercante di New Delhi, che per il gas birmano, neanche in questo momento, rinuncia a fare affari con i massacratori di monaci. Una pagina vergognosa, se posso dirlo, pur con tutto l’affetto per un Paese e un popolo fantastici, o quanto meno assai poco gandhiana, come si legge su DNA - Daily News & Analysis, un quotidiano che si stampa da quelle parti:

On a day when the United Nations along with India is celebrating Mahatma’s Gandhi’s life and his ideologies of truth and non-violence, the government’s refusal to condemn the use of force against demonstrations by peaceful Buddhist monks in neighbouring Burma is ironic.
If Gandhi were alive would he not have spoken out? But the Congress-led coalition in New Delhi, has so far continued to walk a tight rope on the suppression of democracy in its neighbourhood. New Delhi is fighting shy of using its clout with the generals to broker a deal between the generals and the national league for democracy led by Aung San Suu Kyi.
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Restano, è vero, gli Stati Uniti e l’Unione europea, che del resto qualche misura l’hanno già presa in passato: da dieci anni—come ricorda Andrea Lavazza nell’editoriale che si legge su Avvenire di oggi—la Ue ha vietato il commercio di ar­mi, sospesi gli aiuti e revocato lo status di partner com­merciale privilegiato (Lavazza dice anche che sono stati congelati i beni di quei galantuomini dei generali, ma su questo ho qualche dubbio), mentre Washington, dal canto suo, ha bloccato nuovi investimenti e, in parte, le im­portazioni dalla Birmania. A cosa è servito? Evidentemente a nulla.

E allora? Beh, innanzitutto, come sostiene Bernard Henry-Lévy sul Corriere di oggi, sullo strumento “sanzioni” bisogna fare qualche doverosa distinzione e magari smetterla con il ritornello delle «sanzioni-che-non-servono- a-niente-e-che-in-realtà-danneggiano-soltanto- coloro-che-vogliamo-aiutare». Diciamolo: ha qualche ragione Henry-Lévy quando fa notare che è troppo facile, e pure un po’ da “paraculi,” cavarsela in questo modo (“si intuisce troppo bene la scaltrezza di chi, comunque, non vuole fare niente, soprattutto non vuole tentare niente e ancor meno vuole complicarsi la vita”). Ma, a parte questo, l’argomento che a rimetterci, dalle sanzioni, non sono i capi, bensì il popolo, almeno nel caso birmano, è “particolarmente fuori luogo,” e questo per alcuni dati di fatto difficilmente contestabili:

il 75 per cento della popolazione birmana vive di sola agricoltura in un regime quasi autarchico; buona parte di questo 75 per cento vive nascosta nelle foreste per sfuggire a una repressione di cui abbiamo appena intravisto la costante e assoluta brutalità; i monaci stessi, letteralmente bhikku, mendicanti, vivono in una condizione di frugalità che è l'essenza del loro essere; il resto dell'economia, quella di un certo peso, è stata accaparrata da una cricca di ufficiali assassini che la controllano direttamente; insomma, siamo di fronte a un caso esemplare in cui, al contrario, se le sanzioni fossero applicate, andrebbero dritte al bersaglio, senza rischio di sbagliarlo, e indebolirebbero immancabilmente la gang del generale Than Shwe.

A me sembra che il ragionamento non faccia una grinza. Anche perché è bilanciato da considerazioni altrettanto realistiche e persuasive, ma di segno opposto: non ci si può nascondere un’altra elementare verità, e cioè che le sanzioni sono inefficaci quando una parte del mondo le applica e l'altra ne approfitta sfacciatamente, e questo è precisamente ciò che sta succedendo in Birmania, mentre il successo è assicurato quando, come nel caso del Sud Africa, si crea un fronte unito contro l’infamia. E dunque? Condannati nonostante tutto al pessimismo? No, dall’impasse si può uscire, ma a patto di assumersi, contestualmente alle sanzioni, qualche rischio supplementare, tipo intraprendere “un braccio di ferro diplomatico con gli amici indiani,” o fare inequivocabilmente capire ai cinesi

quanto sia difficile concepire che le Olimpiadi abbiano luogo nella capitale di un Paese che incoraggia un regime il cui sport nazionale sembra sia diventato quello di prendere al lazo, picchiare, deportare, torturare e, alla fine, assassinare uomini che hanno, come unica arma, una ciotola di lacca nera rovesciata.

Fin qui si spinge Henry-Lévy, che non arriva, tuttavia, a teorizzare l’opportunità di un boicottaggio delle Olimpiadi del 2008. Probabilmente, al pari dell’editorialista di Avvenire, pensa a qualcosa di “intermedio,” come

minacciare un black out informativo totale sull’evento da parte dei mass media occidentali, un oscu­ramento (finanziato dai governi, visti i diritti già pagati) che vanifichi il ritorno di imma­gine sperato da Pechino e funga anche da contrappasso alle censure cui è oggi sotto­posta la crisi birmana.

Ma non poniamo limiti alla fantasia di antiche e consolidate diplomazie. L’importante è crederci, fermamente, il resto verrà da sé (e comunque non mi sembra niente male l’ideuzza del quotidiano della Cei …).

4 comments:

  1. sì anche a me è piaciuto molto quest'intervento. e il tuo riferimento a certa paraculagine mi pare appropriato. un saluto

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  2. Ciao, holdenc, la paraculagine di qualcuno finisce per offuscare le ragioni dello scetticismo in buona fede di altri ...

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  3. http://www.latvdellaliberta.it

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  4. Gentile autore,

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