January 15, 2007

Dopo Erba. L'apocalisse (forse) puo' attendere

La strage di Erba è uno di quegli eventi che, anche se preferiresti non averne mai sentito parlare, ti costringono a interrogarti. Giustamente i media hanno affidato a commentatori autorevoli e perspicaci il compito di aiutare ciascuno di noi a maturare un’opinione non troppo superficiale ed estemporanea in proposito (un obiettivo modesto, I suppose …). Tra i commenti che mi è capitato di leggere in questi giorni ce ne sono tre che, per un motivo o per l’altro, mi hanno particolarmente colpito—oltretutto sono piuttosto rappresentativi, soprattutto i primi due, delle opinioni che circolano—e che mi sembrano una buona base di partenza per abbozzare qualche riflessione personale.

Il primo è quello di Vittorino Andreoli. Questi è unanimemente riconosciuto come un luminare, un fior di psichiatra. Per cui, se il professore ha detto quello che ha detto sulla strage di Erba, non c’è che prenderne atto e meditare. A fortori, direi, se il suo approccio alla vicenda suona un tantino apocalittico: vuol dire che c’è poco da minimizzare.

L’uomo del nostro tempo, dice Andreoli, è un problema serio. Si tratta di capire perché delle persone che vivono secondo schemi accettabili possano accumulare una serie di frustrazioni tali da indurle a compiere gesti che sono fuori da qualsiasi comprensione, fuori anche dalla follia. E la risposta è che l’uomo del nostro tempo è senza principi, senza sensi di colpa, senza quei freni inibitori che danno un senso alla nostra vita. La vera follia, per il professore, è questa.

Un ragionamento chiarissimo, per nulla “accademico,” addirittura disarmante nella sua semplicità. Il che, direi, fa onore ad un professore che avrebbe potuto benissimo esprimersi in maniera, per dire, più sofisticata. Sospetto fortemente che molti buoni cattolici siano d’accordo con Andreoli. Eppure, a mio modestissimo parere, c’è molta sociologia ma poca teologia nel ragionamento del grande psichiatra. Il che, è ovvio, se non è certamente un limite sotto il profilo “scientifico,” altrettanto certamente non è un titolo di merito dal punto di vista di chi si aspetta risposte che soddisfino la domanda di senso che contraddistingue l’atteggiamento del credente in faccia ad eventi particolarmente tragici e, a maggior ragione, di fronte a siffatte, “diaboliche” e perverse, fenomenologie del male.

Un approccio alquanto diverso, ma piuttosto diffuso soprattutto tra persone che si sentono “di sinistra,” è quello che il veneziano Gianfranco Bettin (consigliere regionale per i Verdi, nonché studioso a lungo impegnato nel campo della ricerca e degli studi politico-sociali) ha proposto sul manifesto del 12 gennaio. La chiave di lettura che egli suggerisce è l’«intolleranza». E’ quasi poetica la sua prosa:

Uno strano frutto cresce spes­so quassù, a nord, in provin­ce che sono tra le più ricche del mondo ma anche fra le più spaesate e a volte spaventate dai cambiamenti che pure contribuiscono potentemente a provocare. Non pende dai pioppi, come lo Strange Fruit di Billie Holiday, ma ugualmente semina «sangue su foglie e radici». Il sangue di Youssef, che ha vissuto soltanto due an­ni tre mesi e due giorni, quello di sua madre Raffaella e di sua nonna Paola, quello dei vicini accorsi in loro aiuto. Questo sangue viene da un frutto che, in questo caso, ha un nome solo e ap­propriato. Guardando alla scena del cri­mine, si potrebbe anche chiamarlo odio. Ma sarebbe un po' sviante. Non perché non ci sia odio in quello che Olindo Romano e Angela Rosa Bazzi hanno confessato di aver fatto. Ma è ve­nuto dopo. L'odio è il frutto maturo. La linfa che l'ha gonfiato fino a farlo esplodere ha invece il nome di intolleranza.

Anche qui, mi sembra, si va abbastanza sul sicuro e sul semplice. Difficile contestare che i coniugi assassini fossero persone estremamente intolleranti. Il punto è che, forse, ricondurre il tutto all’intolleranza è un tantino “ideologico,” o se si preferisce un po’ “minimalista.”

Il terzo approccio è quello proposto da Adriano Sofri su la Repubblica, sempre del 12 gennaio. Difficile sintetizzare il ragionamento. Del resto chi ha una certa dimestichezza con lo stile dell’ex capo di Lotta continua sa che il suo argomentare segue percorsi piuttosto complessi, a volte persino troppo—almeno a mio avviso—per le pagine di un quotidiano, ma sa anche quanto quella complessità rifletta la non facile decifrabilità di ciò di cui si sta discutendo. Per questo Sofri non mi delude mai, neanche quando sono costretto a interrompere la lettura e a tornare indietro per cercare di capire di cosa diavolo stia parlando, e neanche quando, alla fine, non mi trovo d’accordo con lui.

Cito qua e là dal suo articolo (ma raccomando la lettura integrale!):

La lezione è semplice, benché siamo riluttanti a riconoscerla: non c'è grandezza nel male. Ho trascor­so anni accanto a un assassino di vicini di casa—si tratta infat­ti di una piccola ma robusta ca­tegoria. Aveva sempre gli occhi rossi, piagnucolava, compiangeva «la sua disgrazia» — cosi la chiamava.
Non c'è grandezza nemme­no quando il campo di bat­taglia si allarga dal piane­rottolo a un continente. Bisogna riconoscere l'ovvietà, senza perdere il raccapriccio.
[…]
Gli occupanti nazisti permettono alle autorità locali non ebraiche di dar la caccia ai concittadini ebrei. Gli abitanti so­no circa 2500, fra loro gli ebrei sono 1600. Alla fine della giornata sono stati sterminati, ad eccezione di sette scampati. Sono stati trucidati a colpi di randelli, asce, attrezzi da lavoro, bastoni: come nel condo­minio di Erba. Come nel condominio di Erba, c'è stato un gran rogo finale: centinaia di ebrei sono stati ammucchiati in un granaio e bru­ciati vivi, nel tripudio della brava gente.
[…]
Poiché non vuole ras­segnarsi alla propria ignobiltà, l'a­nimale umano si attarda a figurar­si una magnanimità, una grandio­sità magari torva, degli assassini privati, e almeno di quelli pubblici, sulla larga scala. Banalità del male va bene, ma la coppia di Erba è troppo: maniaci dell'ordine e del­l'orario, addirittura netturbino lui, donna delle pulizie lei, troppa gra­zia. Qualcosa che avesse a che fare con gli extracomunitari, o almeno con il carcere, o almeno con l'in­dulto, si poteva starci, a malincuo­re, o perfino con un certo compiacimento. Ma così! Troppo ordina­rio, troppo volgare. Eppure, per questioni di ballatoio, il mondo si scanna.
[…]
Le cittadi­ne toscane sono così belle di case torri perché una famiglia doveva arroccarsi e difendersene dalla vi­cina. Nel centro di Siena vi mostre­ranno due palazzetti attigui, ma separati da una fessura di un dito, come due bellimbusti che si fron­teggino sfidandosi a morte: «Prova a toccarmi».
[…]
C'è nel male, e forse anche nell'infelicità, una forza che ab­bassa e degrada e rende turpemente somigliante. La famiglia guarisce e uccide. Negli anni '60 una idea libertaria denunciava «la famiglia che uccide»: che uccide i suoi membri, cioè. Oggi, nono­stante il rumore di fondo ininter­rotto sui valori della famiglia, ab­biamo una nozione assai lucida e certificata della famiglia che ucci­de, che fa la guardia ai panni spor­chi delle violenze sui bambini e sulle donne, della stessa finora in­dicibile ribellione angosciata delle madri. E tuttavia possiamo guar­darci dalla doppia ideologia, della sacra famiglia e dell'antifamiglia, e misurarci con l'esperienza, le sofferenze, le felicità. I due sciagu­rati di Erba sono una famiglia, hanno pagato la solidità del loro naufragio comune diventando una famiglia che uccide fuori di sé, contro il resto del mondo.

A me sembra una riflessione ineccepibile, la meno “unilaterale” e, in ogni caso, la più profondamente “cristiana” tra quelle che ho letto. Ci ritrovo l’eco dolente e tragico di quel mysterium iniquitatis di cui la Chiesa ha sempre narrato. Un “laico” disincanto che, al pari del suo omologo “confessionale” non implica, di per sé, la rinuncia alla buona battaglia che il Giusto deve essere disposto a combattere—sempre, non soltanto quando il Princeps huius mundi lancerà l’assalto finale—contro l’iniquo, ma semmai una consapevolezza tanto più rispettabile quanto meno consente di cullarsi in comode illusioni.

Certo, il bagaglio culturale di Adriano Sofri non include lo scontro redentivo fra il mysterium iniquitatis e il mysterium pietatis, cioè la vittoria finale del Bene. Ma questo non toglie nulla all’efficacia della rappresentazione, anche dal punto di vista di coloro i quali, al contrario i Sofri, la fede ce l’hanno. Quanto a questi ultimi, indubbiamente, che vi sia un "mistero di iniquità" che è dentro al "mistero della pietà”—che affonda le radici nell’obbedienza di Cristo (cfr. Rom 5,12 ss)—è ciò che dovrebbe consigliare, tra l’altro, una certa diffidenza per i toni tragici e apocalittici di chi vede fin troppo nitidamente il male del nostro tempo, ma si sforza di ignorarne il bene, che forse sta silenziosamente crescendo. Perché, come si sa, la grazia sovrabbonda dove abbonda il peccato. Poi, è chiaro, se proprio Armagheddon deve essere, i profeti d sventura stiano pur tranquilli: ci attrezziamo, anzi, siamo praticamente già attrezzati—o di riffa o di raffa—da circa duemila anni …