Che quella che stiamo vivendo sia «un’epoca interessante»—secondo la micidiale maledizione cinese: “Ti auguro di vivere in un’epoca interessante!”—penso ci siano ragionevolmente pochi dubbi. Nel mondo succede quel che succede, e nel nostro piccolo, in Italia, ci stiamo dando da fare senza risparmio, con una
escalation che, almeno apparentemente, nelle ultime settimane ha assunto i ritmi e l’intensità di un autentico incubo.
Premetto che sono allergico ai toni apocalittici ed ai catastrofismi, e che il piangersi addosso elevando alti lai o, peggio ancora, evocando anatemi e invocando improbabili catarsi collettive (con annessi roghi ed altre sottospecie di riti purificatori e palingenetici) lo considero una pratica intollerabilmente ipocrita, oltre che sterile. Però …, però non si può neppure far finta di nulla o minimizzare disinvoltamente quello che sta succedendo. L’elenco è lungo: si va dal massacro di Erba ai fatti di Catania, dal ritorno (songiurato, sembra) delle BR alle tensioni e alle paure per la manifestazione di Vicenza, passando per le intemperanze verbali del solito Diliberto che, per un pugno di voti, dichiara
erga omnes che il capo dell’opposizione “gli fa schifo” (ma questa faccenda non meriterebbe neppure l’onore della citazione). Senza dimenticare il bullismo nelle scuole e i filmati
“killer” dei micidiali telefonini in uso tra i nostri ragazzi.
Se a ciò si aggiungono le più recenti e accesissime dispute in materia di bioetica e lo scontro sui Pacs (o “DICO” che dir si voglia), il cerchio si chiude. Risultato: una specie di
scontro di (in)civiltà, un
bellum omnium contra omnes senza esclusione di colpi, con un tasso di intolleranza e di odio verbale, ideologico e “pratico” che penso abbia pochi precedenti nella nostra storia recente.
C’è di che essere francamente disgustati, sul piano culturale, psico-sociologico, umano, ecc, fin quasi a essere tentati di dimettersi da questa società… E da un punto di vista politico c’è di che disamorarsi della
res publica. Direbbe il solito pessimista metodologico: se le cose stanno così, se la politica è, se non addirittura dannosa, quanto meno inutile, fatevela da soli, e così via, di qualunquismo in populismo e buona notte al secchio. E invece no. Neanche per sogno, neanche per scherzo: questo è esattamente il momento di essere fino in fondo
civil society e di “far politica,” di non lasciarsi impressionare dalle grida e dalle risse e di tenere ferma, come si suol dire, la barra del timone. Già, ma come si fa? Attenzione: non
cosa (non è così semplice, purtroppo) ma
come. Bene, abbiamo un esempio: impariamo dalla Chiesa.
Quella Chiesa che, con una presa di posizione sui “DICO” (e prima ancora sul caso Welby) che più intransigente non poteva essere, ha dimostrato ancora una volta di essere una delle poche cose serie di questo Paese. Attenzione, a mio avviso non occorre “sposare” la linea della CEI per riconoscere alla Chiesa di aver agito in maniera appropriata: se, come nel caso Welby, sui diritti delle coppie di fatto si è scelta la via della contrapposizione e si è buttato a mare il dialogo, una logica c’è. E non è quella rinfacciata dagli oppositori, cioè di voler egemonizzare, dominare o imporre alcunché. Al contrario, come alcuni commentatori hanno osservato, è proprio perché i cattolici sono oggi in minoranza che era necessario ed opportuno assumere un atteggiamento tanto duro.
Semplicemente la Chiesa ha capito che in questa fase storica ci stiamo giocando tutto. Ha colto l’eccezionalità del momento, il rischio che le nostre società stanno correndo, ed ha messo sul tappeto tutto il suo prestigio, rinunciando ai tatticismi e ai compromessi. Se deve perdere, perderà su posizioni chiarissime, senza doversi far perdonare anche qualche furberia di troppo.
Gli oppositori, a questo punto, osservano che c’è il rischio che la Chiesa abbia partita vinta su tutto il fronte, e naturalmente si disperano per questo. E’ vero, la maggioranza di governo potrebbe soccombere di fronte a questo attacco frontale. Ma, a ben vedere, la colpa non sarebbe della Chiesa, bensì di coloro i quali si ostinano a far politica
in quanto cattolici pur stando in una coalizione che è saldamente in mano alle componenti a-cattoliche e/o laiciste presenti nel Parlamento della Repubblica, e l’
aut aut della gerarchia ecclesiastica serve appunto a dimostrare che è ora di finirla con le commedie: se stai da quella parte non rappresenti ciò che dici di rappresentare, a meno che tu non faccia come Mastella (che se ne infischia di come votano i suoi alleati e va per la sua strada). Insomma, Rosi Bindi è servita.
Ma qualche imbarazzo può esserci anche nello schieramento opposto. Giorgio La Malfa, che pure sta dalla parte “giusta,” osservava un paio di giorni fa che uno stato laico semplicemente non può non dare adeguato riconoscimento giuridico alle coppie di fatto: beh, penso che abbia ragione, ma lui non è un politico che si qualifica pubblicamente come un cattolico in politica (e proabilmente, per quanto ne so, non è neppure un credente), dunque può permettersi questo e altro. Anche un credente che milita in un partito che non reca l’aggettivo “cristiano” nella sua ragione sociale, quando è nell’esercizio delle sue funzioni parlamentari, può orientarsi laicamente e manifestare il proprio dissenso politico (non etico, naturalmente) dalle posizioni del Papa e della Chiesa. Credo che così mi regolerei anch’io, se fosse inevitabile.
Insomma, la Chiesa ha sparigliato. E lo ha fatto perché ha deciso che è arrivato il momento di leggere i “segni dei tempi.” Ha saputo assumersi le proprie responsabilità davanti a Dio e alla storia. Ha deciso di rischiare grosso. Ha scelto, forse, anche tenendo d’occhio la “comprensibilità” delle proprie posizioni, a costo di rinunciare a quella duttilità e sottigliezza di discernimento che in tempi normali consente di evitare spaccature inutili, ma che in tempi straordinari rischia di annacquare la forza del messaggio. In guerra, ad esempio, funziona così. I cattolici sono avvertiti. I politici facciano come credono, ma non mettano in mezzo la Chiesa se non se la sentono di seguirne le “direttive” senza se e senza ma.
Sospettare che dietro questo atteggiamento ci sia un cupo pessimismo, una sorta di radicale sfiducia nel nostro tempo, sarebbe lecito, se non addirittura ovvio. Ma chi conosce solo un po’ la storia della Chiesa, o la storia
tout court, non ci casca. La verità è invece che la nave di Pietro ha superato molte tempeste, e di conseguenza chi la governa ha ben appreso l’arte di scrutare l’orizzonte per prevenire l’irreparabile o almeno per ridurre al minimo i danni.
Così dovrebbero imparare a fare anche i non chierici che si prendono cura della
res publica. Senza piagnucolare, ma anche senza atteggiamenti da Titanic. Dovrebbero, anzi dovremmo, imparare a sparigliare, come ha saputo tante volte fare la Chiesa. Il guaio è che noi siamo in generale poco disposti a farci guidare dallo Spirito Santo …