Vabbè, dove voglio andare a parare? E’ imbarazzante, lo ammetto …, ma vorrei tornare sull’Esortazione del Papa e prenderla di lato, un po’ a tradimento. Adesso qualcuno starà pensando: hai visto mai che vuol stabilire una relazione di causa-effetto tra il discorsetto ratzingeriano e il giro di vite sul porno? Tranquilli, non ci penso neppure, non voglio stabilire un bel niente. Però, però un dubbio, un sospetto magari sì, quello vorrei insinuarlo, perché si sa, la vita è una foresta di simboli, e allora, se prima citavo il titolo del capolavoro di Paul Ricoeur, ora citerò il motto che ne costituisce il Leit-Motiv: le symbole donne à penser. E allora pensiamo: che senso ha questa svolta epocale—perché tale è, sia ben chiaro—in materia di comunicazione, intrattenimento e pubblicità? Non vuol dire, per caso, che siccome la pornografia è male, a tutte le ore del giorno e della notte, occorre vietarla o quanto meno limitarne la diffusione esclusivamente a trasmissioni criptate? Personalmente direi di sì. Ebbene, passiamo all’Esortazione. Breve, chiara, inequivocabile, come si diceva. Il senso? Butto lì: ci sono principi non negoziabili, c’è il bene e il male, ci sono cose che sono buone e cose che sono cattive: la Chiesa sta con le une e contro le altre. E pretende che chi in essa si riconosce si regoli di conseguenza, soprattutto se ha responsabilità politiche.
Si può vedere un nesso tra i due eventi? C’è libertà di interpretazione, naturalmente. Ma se l’Autorità per la Garanzie nelle Comunicazioni è arrivata a questa decisione, e se la motivazione è quella che suggerivo prima, forse il nesso c’è: (mia interpretazione) è forse arrivato il tempo della chiarezza. Non qualsiasi comportamento—in materia di morale e costumi sessuali—è lecito, non tutte le scelte si equivalgono, anche se non si è in presenza di violazioni del codice penale e si resta nei limiti di un civile rispetto delle libertà individuali.
Naturalmente c’è chi non è d’accordo con la decisione dell’Autorità, e il suo dissenso va rispettato. Il problema è che prima poteva succedere che un ragazzino o una ragazzina potesse assistere a spettacoli di una oscenità e di un cattivo gusto al di là di ogni immaginazione. Ora non più.
A questo punto uno si potrebbe domandare se una Chiesa più martiniana (ascolto della gente, dialogo) e meno ratzingeriana e ruiniana (riaffermazione di “principi non negoziabili”) avrebe mai potuto generare un humus favorevole alla chiarezza che oggi si comincia a respirare. Io ne dubito, con tutto il rispetto che il cardinal Martini merita, con tutte le ragioni che bisogna riconoscergli—che senso avrebbe una Chiesa incapace di ascolto e di dialogo? Anche se—attenzione, prego!—è lo stesso cardinale che, per esempio, dice di «non credere molto nel dialogo interreligioso», perché «ciascuna religione è un po’ incasellata nel suo schema, e gli schemi si ripetono», e tuttavia c’è «un livello di verità delle parole che vale per tutti, credenti e non, e in cui tutti si sentono coinvolti e parte di una responsabilità comune» (sul Corriere di oggi, non online). Sembra di sentire Benedetto XVI. Già, perché in fondo la differenza tra i due, se c’è, non è sostanziale, è politica. Nel senso che Ratzinger “fa politica,” Martini no. Il primo calcola le conseguenze che il suo magistero può avere sulla società, il secondo si preoccupa soprattutto delle anime. Il primo parla di Gesù, il secondo anche, ma tenendo d’occhio l’Anticristo che incombe minaccioso. Uno è un costruttore di pace, l’altro sta portando nel mondo una spada.
Ehi, l’ho nominato, non ho potuto evitarlo, e adesso devo renderne conto, sia pure obtorto collo, ché sarei allergico agli escatologismi (a buon mercato). Il fatto è che ieri Il Foglio ne parlava in un intero paginone, ed io, per i cultori del genere letterario, ho dato asilo al tutto in un posto sicuro e tranquillo. Ne parlava, Il Foglio, come si conviene, cioè con le parole di Solov’ëv, il filosofo russo che nell’Ottocento ne profetizzo la venuta e ne descrisse il tratto e il programma: pacifista, animalista, ecologista, ecumenista, spiritualista. Uno che crede persino in Dio, ma non in Gesù Cristo, cioè in colui che “ha portato la spada,” mentre lui dice di sé “io porterò la pace,” non nel Cristo che “col suo moralismo ha diviso gli uomini secondo il bene e il male,” mentre lui li unirà “coi benefici che sono ugualmente necessari ai buoni e ai cattivi.”
Ecco, direi, qual è il punto. Dividere gli uomini secondo il bene e il male. Ovvio, perfettamente legittimo dubitare che il bene secondo Ratzinger sia il bene secondo Dio (o secondo gli uomini) e il male sia il male, e via discorrendo, e che debba esserci qualcosa che si possa definire come il Bene (o il bene). Ma da un Papa cosa ci si può aspettare? Evidentemente che chiami le cose con i loro nomi, cioè come a lui è stato tramandato che debbano chiamarsi. E se a un certo punto si intravede lo sfavillio di una spada dovremmo forse scandalizzarci? Dovremmo, noi cristiani, sacrificare tutto alla “pace” e deporre la spada? No, certamente, se la pace è quella cosa di cui parla l’Anticristo solovëviano e la spada è quella che Gesù Cristo è venuto a portare, perché, come Solov’ëv fa dire ad uno di quei pochi che ancora si oppongono al nuovo Padrone del mondo,
«C’è […] la pace buona, la pace cristiana, basata su quella divisione che Cristo è venuto a portare sulla terra precisamente con la separazione tra il bene e il male, tra la verità e la menzogna; e c’è la pace cattiva, la pace del mondo, fondata sulla mescolanza o unione esteriore di ciò che interiormente è in guerra con se stesso.»
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P.S.: Fa piacere che, ogni tanto, anche sul versante “laico” si riconosca a un Papa il diritto di richiamare “i suoi” a un minimo di coerenza. Segno, a mio avviso, che c’è ancora speranza che la franchezza venga accolta come un pregio, e non come un difetto, anche in un Paese che è maestro nell’arte di eludere gli aspetti sostanziali delle cose per rifugiarsi in comode rendite di posizione. Una lettura caldamente raccomandata.