In questo caso, il risvolto inesplorato (si fa per dire) è un certo costume nazionale, cioè quello di cercare (e trovare) sempre dei cavilli o dei trucchetti per fare quello che ci pare ma presentando il tutto non per ciò che è, vale a dire una furbata, bensì come qualcosa che ha una sua “giustificazione” (razionale e, che so, storica, politica, morale, etica, ecc., ecc.). E’ incredibile quello che si sente in giro a volte.
Lasciamo stare il discorso di chi non paga le tasse e si fa paladino di una giustizia fiscale tutta sua contro gli abusi statalistici, anche perché magari il nostro sistema fa girare le scatole veramente e si andrebbe a parare in un campo minato. Prendiamo piuttosto la politica: io non smetto mai di domandarmi—davvero, è quasi una fissazione—come sia possibile essere stati iscritti al Partito comunista per decenni e dichiarare candidamente di non essere mai stati comunisti. Vabbè, dicono i Veltroni o le Livie Turco, c’era la “questione morale,” per cui una persona per bene doveva stare da quella parte perché tutti gli altri erano …, insomma, ci siamo capiti. E poi c’era Berlinguer, il suo indubbio fascino intellettuale e morale, il suo stile, ecc., ecc., per carità. Però ..., però, a mio sommesso parere, nessun Berlinguer e nessuna questione morale dovrebbe mai indurre alcuno ad abbracciare un credo politico—e quale credo, mica una blanda socialdemocrazia!—che non si condivide in profondità. Per cui, per me, delle due l’una: o uno fa il furbo adesso, oppure lo faceva allora. Tertium non datur. Ok, confesso che non sono molto elastico quando si parla di una Weltanschauung, ossia, posso esserlo nei dettagli dell’applicazione nella quotidianità (ma neanche tanto, ad essere proprio sincero), non sulle questioni di sostanza.
Ebbene, qualcosa di analogo accade in materia di religione. A me, per dire, ha sempre dato un po’ fastidio definirmi un cattolico quando si parla di politica, e questo per una ragione molto semplice: perché è molto impegnativo etichettarsi come cattolici in politica, figuriamoci poi chiedere voti in quanto tali! Per questo preferisco tenere per me la mia appartenenza religiosa, pur senza ritenere che quest'ultima possa essere considerata un fatto esclusivamente "privato." Tuttavia, se si arriva al dunque, non posso fare a meno di dire che sono cattolico e che cerco pure di essere coerente, anche se l’esplicitare il tutto è come se mi togliesse ossigeno, perché in fondo credo sempre nel primato della coscienza—del resto, emersoniano quale sono, come potrebbe essere altrimenti?—e nella responsabilità personale, davanti a Dio, delle azioni di ciascuno, il che, tra le altre cose, non è prerogativa soltanto dei protestanti. Ma certamente, se mi qualificassi come un cattolico impegnato in politica, e per giunta in una formazione che si presenta come ispirata ai valori cattolici, non mi permetterei neppure per un secondo di mettere in discussione il Magistero della Chiesa. Me ne guardo anche senza essere mai stato né un dc né qualcosa di simile, figuriamoci!
Una differenza, però, tra me e loro, c’è, anche se si gioca sul filo del rasoio. E questa differenza è il motivo per cui ho sempre ritenuto che un partito politico che si rifà espressamente a un credo religioso non faccia per me, anche se rispetto chi si regola in un altro modo. Però, appunto, chi sceglie di militare in un partito di quel tipo non può sottrarsi agli obblighi che ne conseguono. E i non cattolici non hanno motivo di ritenere che questa «obbedienza» sia qualcosa di disdicevole.
E a questo punto cedo il passo all’editoriale del Foglio (30-03-2007):
Si sta arrivando, sulla questione della regolamentazione delle coppie di fatto, allo “spartiacque” che era stato preannunciato da un autorevole editoriale del quotidiano dei vescovi. Su questa materia la chiesa chiede obbedienza ai suoi fedeli, compresi quelli che rivestono cariche politiche. E’ la chiesa cattolica nel suo insieme a farlo, senza distinzioni possibili tra l’episcopato italiano e la cattedra papale, visto il linguaggio se possibile più esplicito impiegato da Benedetto XVI, confortata dal sostegno delle organizzazioni del laicato, che manifesteranno in piazza San Giovanni a sostegno dell’unicità irripetibile della famiglia. Le reazioni dei sostenitori dei Dico a questa richiesta di obbedienza vanno dallo scandalo alla delusione allo sconcerto. L’argomento più ripetuto è che in questo modo i vescovi italiani ledono la libertà di coscienza dei credenti e l’autonomia della politica. Si tratta di un uso paralogistico, cioè inappropriato al caso, di nobili concetti. La coscienza è libera, libera di aderire o no a una religione, ma se lo fa assume liberamente un impegno. Essere cattolici non è obbligatorio, ma il cattolicesimo non è un supermarket nel quale si prende quel che serve e si lascia il resto. L’autonomia della politica, poi, si esercita nelle istituzioni nelle quali gli eletti rispondono alla loro coscienza e ai loro elettori, peraltro senza un cogente vincolo di mandato. Se un esponente politico, però, vanta pubblicamente la sua adesione alla fede cattolica, traendone anche i vantaggi elettorali che ne conseguono, non può negare a chi ha, per così dire, il copyright del cattolicesimo, cioè ai vescovi, di richiamarlo alla coerenza con i valori cui liberamente ma pubblicamente si è impegnato a ispirarsi. L’autonomia della politica implica che i cattolici accettino le decisioni delle istituzioni anche quando non le condividono, rispettando le leggi dello stato. Una libertà di coscienza che implica la disobbedienza ai vescovi e al Papa non è una novità, si chiama protestantesimo, e com’è noto non fa parte del cattolicesimo.