In effetti i due editoriali erano molto efficaci e, credo, anche ampiamente condivisibili da parte di chi si preoccupa più di far sì che il sistema politico italiano nel suo complesso possa tirarsi fuori dal pantano in cui sguazza da tempo immemorabile, che di tirare acqua al mulino di qualcuno. Comunque i ruoli erano ben distinti: Panebianco ha rappresentato la pars destruens e non ha lesinato critiche, per quanto costruttive, Mieli ha svolto la pars construens, indicando il possibile radioso futuro del partito nascente. Il professore, cioè, ha attaccato duramente la pessima propensione a definire le identità politiche “in rapporto al passato anziché al futuro,” per cui “ci si aggrega contro qualcun altro usando il passato (diviso) come fonte di identità.” Il che comporta che ci si senta esentati “dal dover essere troppo dettagliati sul futuro, su ciò che si intende fare.” Errore capitale nel quale solo “un outsider totale” come Silvio Berlusconi—e qui il colpo ai ds e ai dl è stato crudele—non è caduto. Poche storie, insomma, qui non vale più la regola del
dimmi il tuo patronimico, dimmi di chi sei figlio, e saprò chi sei. Vale la regola: dimmi (con precisione, senza menare il can per l’aia) cosa farai e saprò chi sei.
Qui, cioè appunto nel definire la propria identità politica in rapporto al futuro anziché al passato, con il «contratto con gli italiani» e il proposito di tagliare le tasse ribadito in tutte le salse, Berlusconi ha fatto scuola, infischiandosene dello “scandalo” che il suo stile diretto suscitava nell’opinione pubblica schierata a sinistra. Conclusione, ammonimento e auspicio di Panebianco:
Dopo che Berlusconi ha spezzato il cerchio, continuare a declinare al passato le identità rischia di essere suicida. Il Partito democratico non sarà una impresa vitale se non saprà districarsi dai lacci del passato, se non saprà costruire la propria identità in rapporto al futuro.
Mica male, il professore. Ma vediamo cosa aveva scritto il direttore del Corriere. La faccio breve: mettiamo da parte—ha esortato—“il modo critico, talvolta ipercritico (giustamente ipercritico) con il quale un po’ da tutti è stata seguita la gestazione del Partito democratico,” e prendiamo coscienza che ciò a cui siamo di fronte è “un evento di dimensioni storiche.” Perché? Beh, il nome, per esempio …
Non ci sembra poi di scarso rilievo la circostanza che i fondatori della nuova formazione politica, anziché ispirarsi a una delle denominazioni del centrosinistra europeo, abbiano optato per quella del più antico partito statunitense, il partito di Franklin Delano Roosevelt ma anche dell’anticomunista Harry Truman, di John Kennedy ma anche del «guerrafondaio» Lyndon Johnson e poi di Jimmy Carter e di Bill Clinton.
E poi? Poi basta, sembra di capire, ma i nomi non sono acqua fresca. Comunque il futuro potrà essere radioso veramente, ma ad un patto:
Molto, molto interessante la conclusione di Mieli. Anzi, molto, molto profetica (sempre nel senso biblico). Infatti il “capo certo e carismatico” è spuntato come per incanto dai congressi dei due partiti fondatori. Chi? Domanda retorica, evidentemente: “l’unto del Signore” è Walter. Basta aver letto ciò che ha scritto Curzio Maltese su la Repubblica (ieri) per far evaporare istantaneamente eventuali dubbi residui e riserve:Solo se guidato fin dai primi passi da un capo certo e carismatico il partito democratico potrà avere successo. Un successo i cui effetti, riverberandosi anche nel campo opposto, possono produrre una stabilizzazione dell’intero sistema. Del che c’è evidente bisogno.
La lotta per la guida del Partito Democratico sarà anche aperta, anzi apertissima, come si sforzano di dire tutti, ma intanto l'egemonia culturale di Walter Veltroni sul nuovo partito è più solida di quella di Antonio Gramsci nel nascente Pci […].
Interessante anche la spiegazione dell’arcano, che, ça va sans dire, è stata anticipata dal Corriere, ma stavolta per la penna di Angelo Panebianco. Scrive Maltese:
Non è un oratore né un ideologo, non vanta un grande carisma e non è neppure telegenico. Si può dire che ha sfruttato al meglio una qualità personale unica nel gruppo dirigente del suo partito e non soltanto. È il solo politico della sua generazione a non subire l'ossessione del passato. Come D'Alema e Fassino, Mussi e Angius. Bersani e Finocchiaro, Bassolino e Cofferati. Forse perché davvero «non è mai stato comunista», a differenza degli altri. È la tragedia, il limite dei suoi rivali interni, quel correre verso una modernizzazione che significa sempre fare i conti col passato e mai con il presente e il futuro.
E adesso attenzione a quest’altro passaggio che sembra scritto da Panebianco in persona:
In un simile vecchiume, Walter Veltroni e Silvio Berlusconi sono le sole figure pubbliche a sostenere la prevalenza del presente, l'unico tempo che davvero conti in politica. Ed è questa la principale chiave del successo di entrambi nei rispettivi schieramenti.
Direi che c’è di che rimanere sgomenti. Roba da Antico Testamento questa confusione dei piani temporali: il prima (del congresso ds) e il poi che si fondono e si confondono, e tu che non riesci più a distinguere tra la profezia e la realizzazione della medesima.
Ma non è finita qui. Ci ha pensato Paolo Franchi, sul Riformista, a chiudere il cerchio. Che cos’altro è emerso dal congresso diessino? L’America, naturalmente, cioè il “partito americano.” Ebbene, sentite qua:
In sostanza: mentre molti, e noi tra questi, nemmeno se ne accorgevano, persi come si era a baloccarci attorno a questioni e questioncelle dall'insopportabile retrogusto novecentesco, stava arrivando l'America. Secondo le previsioni (o le prescrizioni) formulate in apertura delle assise della Quercia dal direttore del Corriere della sera. E come in fondo si conviene, se vuole uscire dalla sua eterna condizione di crisi, al paese per tanti aspetti più americanizzato dell'Europa continentale.
Più chiaro di così si muore: “le previsioni (o le prescrizioni)” di Paolo Mieli! E’ il sigillo definitivo sul carattere autenticamente profetico dell’ormai storico editoriale.
Comunque, a scanso di equivoci, mi corre l’obbligo di fare una precisazione: a me, personalmente, la svolta “americana” e anti-ideologica sta benissimo—per il bene del Paese, non perché intenda aderire: figuriamoci se potrei mai diventare veltroniano!—come pure la fuoriuscita preventiva dal Pd di taluni nostalgici del socialismo (sì, quello che hanno combattuto usque ad sanguinem, e fino a l’altro ieri, sia i neo-democtats sia i neo-socialisti). Ha ragione, a tal riguardo, l’araldo del veltronismo Curzio Maltese:
La stessa lagna sull'abbandono di Mussi e Angius, con tutto il rispetto per i sentimenti, la dice lunga. Se il Partito Democratico incarnasse davvero la novità che pretende di rappresentare, altri cento Mussi, Angius, […] sarebbero stati spinti sulla strada dell'addio.
Ovvero, ha ragione fino a un certo punto, dal momento che tra le parentesi quadre Maltese aveva inserito anche i nomi di Caldarola, Macaluso e Nicola Rossi. Francamente sulla presenza in elenco dei primi due non sarei molto d’accordo, mentre sul terzo mi domando se al Nostro non sia scivolata la penna mentre vergava la sua lista dei cattivi …
Quindi, massimo rispetto e un certo compiacimento per come si stanno mettendo le cose. Per il resto non andrei tanto a sottilizzare su certi aspetti un po’ comici di tutto l’apparato, come la colonna sonora del congresso di Firenze («Over The Rainbow» …) o certe locuzioni piuttosto singolari sotto il profilo semantico. Però, onestamente, non posso che dare atto ad Adriano Sofri di avermi regalato un momento di sano e innocente divertimento, con il seguente commento telegrafico, dopo tanta seriosa compunzione di fronte allo storico evento:
Tra gli slogan del congresso Ds (della Margherita non so, ne ho ascoltato una parte) ricorreva l’opposizione fra nuovo partito e partito nuovo. “Non vogliamo un nuovo partito, ma un partito nuovo”. Lo si è ripetuto tante volte, e mi sono chiesto come se la cavassero le interpreti che dovevano tradurre in inglese per le delegazioni straniere. Ne deriva un’impressione un po’ meschina della nostra retorica politica, ma anche una certa soddisfazione per i vantaggi che la lingua italiana offre con la libertà di combinazione di sostantivi e aggettivi. In italiano potremmo costruire anche un vecchio partito nuovo, un nuovo partito vecchio, e perfino un nuovo partito nuovo. Dobbiamo solo rinunciare a spiegarlo alle delegazioni straniere.
[«Piccola Posta», sul Foglio di oggi]
Infine, esorterei i lettori che hanno colto la portata epocale di quanto testè richiamato a non lasciarsi fuorviare e demoralizzare da un editoriale alquanto sarcastico del Foglio di oggi. Per una volta, limitiamoci a contemplare il bicchiere mezzo pieno. Prosit.