May 27, 2007

Dove vogliamo andare a parare?

Ci si domandava “dove vuole andare a parare,” il Montezemolo, ma il problema era, è, un altro: dove vogliamo andare a parare noi, gli italici cittadini. A volte la vita è meno complicata di quel che sembra. Cioè, una volta inquadrata la situazione, bisogna tirare una linea retta (quasi). Altrimenti tocca sorbirsi un’analisi come quella di Barbara Spinelli su La Stampa di oggi, che per dir male di una complessità che finisce per diventare l’alibi per non far nulla ci propina Durkheim, il suicidio anòmico (attenzione: non anemico), Weimar, Max Scheler e la “«nostalgia straordinaria di guida, a tutti i livelli» (beispiellose Sehnsucht nach Führerschaft allüberall).” Oh Lord, my Lord, salvaci dalle citazioni in Deutsche Sprache, quelle che ti fanno venir voglia davvero di metter mano alla pistola! (Pierluigi Mennitti mi perdonerà, spero …).

Il guaio è che ci si mette anche Luca Ricolfi, su La Stampa di ieri, che cita Lucia Annunziata, stesso giornale (deve trattarsi di un complotto sabaudo …):


Forse mi sbaglierò, ma la mia impressione è che quello che sta montando nel Paese, fra la gente, non è l’astratta richiesta di riforme (su cui ben pochi hanno idee precise) ma è un ben più concreto e diffuso sentimento di frustrazione e di rabbia per il triste film che quotidianamente passa sotto gli occhi di tutti. Pochi giorni fa, su questo giornale, Lucia Annunziata ha parlato di un «generale senso di ingiustizia». Sì, credo che proprio questo sia il sentimento che si sta condensando in Italia. La gente, poco per volta ma inesorabilmente, si sta rendendo conto che l’immobilismo del ceto politico sta alimentando un mare di ingiustizie, che però la politica non ha occhiali per vedere.

Aria, aria fresca, spalancate le finestre, spegnete immediatamente lo stereo, la radio o quello che vi pare, se per caso stanno risuonando le note decadenti del Götterdämmerung wagneriano—niente di più odioso di ciò che si è amato in gioventù, lo devo ammettere onestamente—e datemi piuttosto il padano, verace, concreto Verdi: Viva Verdi!

Datemi, piuttosto, la prosa piana e anglofila—thanks God!—di Giulianone Ferrara (sul Foglio di ieri):


Le idee di Monti sulla società aperta, le intemerate confindustriali, le severe lezioni antitasse di un Mario Draghi, le nuove posizioni svincolate da ogni osservanza prodiana dei grandi banchieri, tutta questa nervosa mobilità collegata con le nuove tendenze europee e francesi, e con una cultura di mercato che cerca di liberarsi dal soffocante clima neoirista del prodismo provinciale all’italiana, sono risorse molto decenti e serie che un leader sicuro di sé deve saper rispettare, e alle quali deve saper dare uno sbocco politico credibile.
[…]
e sta solo al Cav. e alla sua prudenza folle avviare un progetto inclusivo in cui la sua personalità d’attacco sappia incontrare tutti i volenterosi del mondo per porre fine alla vita di un governo e di una maggioranza che letteralmente non ce la fanno più, ma saprebbero tirare avanti se all’opposizione non quagliasse la convergenza dei diversi per un obiettivo comune.

Diciamo la verità: uno può essere d’accordo o meno, ma questo è parlare da cristiani … Se invece preferite l’altro tipo di eloquio, accomodatevi pure (ancora la Spinelli, che cita Arrigo Levi, sempre su La Stampa …):

Il suicidio anòmico, che si diffonde in simili epoche, è favorito dallo slabbrarsi dell’autorità, delle istituzioni come Stato o famiglia, Chiesa o sindacato. Il suicidio può essere l’atto d’un individuo o di una società, una civiltà, uno Stato. Può suicidarsi anche la politica, come rischia di succedere in Italia. Chi è tentato dal suicidio anòmico ha la tendenza a considerarsi perdente, e vive come se nessun legame sociale potesse più tenere insieme gli interessi dei singoli partiti (quella che Monti chiama tecnica della sopravvivenza è in realtà autodistruttiva). A spingerlo verso questo tipo di harakiri non è tanto la crisi economica ma sono le trasformazioni impetuose che spezzano equilibri e regole preesistenti. Secondo Durkheim è soprattutto nei periodi di prosperità che i legami sociali s’allentano e il senso di sconfitta mette radici, creando quell’infelicità così ben spiegata, il 24 maggio su La Stampa, da Arrigo Levi: un malumore dilagante che non nasce da mali autentici ma è piuttosto una nevrosi, una collettiva illusione pessimista, enigmatica e inquietante: assai simile alla sete che secondo Scheler minava Weimar.

Siete ancora vivi? Ancora non vi siete suicidati o non avvertite un’irrefrenabile vocazione a mettere in atto il turpe proposito? Ok, siete quasi salvi—io volevo solo mettervi alla prova. Viva Verdi!