Ma di una cosa sono ragionevolmente certo: che «il vero problema non è pubblicare o meno le intercettazioni. È invece commettere o non commettere fatti di commistione tra la politica e affari», anche perché «chi fa politica non può farla nell’interesse di corporazioni e lobby, ma deve farla nell’interesse di tutti» (ibidem). Sono parole di Di Pietro, e c’è da credermi se confesso che il trovarmi d’accordo con lui su una materia come questa non mi entusiasma affatto. Ma tant’è. Essere garantisti non significa approvare la politica dello struzzo.
Dopodiché discutiamo pure sui “poteri forti” e sulle loro trame, sulle coincidenze che si moltiplicano, sul coordinamento che si intravede dietro alcune vicende e soprattutto su chi ha fatto in modo che l’opinione pubblica ne venisse a conoscenza “al momento opportuno,” discutiamo su tutto, avanziamo dubbi e sospetti, ipotesi e controipotesi, ma cerchiamo di non perdere di vista la sostanza. Parlando di blogosfera, ad esempio, fa male, molto male, Luca Sofri-Wittgenstein a minimizzare (e banalizzare). Ha fatto un po’ meglio Camillo-Christian Rocca:
Max-facci-sognare-D'Alema ha ragione: non siamo uno stato di diritto. Non si capisce, però, come mai non l'abbia mai detto quando quello che oggi accade a lui – tutto sommato pochino – è capitato a centinaia tra avversari politici, soubrette e dirigenti di squadre per cui non fa il tifo.
(Quanto al merito politico: non dovrebbe spiegare come mai ai tempi dei furbetti si indignava con chi metteva in relazione i Ds con la sognante scalata Bnl dell'Unipol?)
Che non siamo uno stato di diritto, comunque, sarà anche vero in generale, ma dedurre ciò dalle vicende in questione penso sia qualcosa che meriterebbe qualche ulteriore approfondimento.
Sempre restando agli aspetti non tanto di immagine (compromessa) quanto di sostanza, e per dare uno sbocco concreto alle solite querelles, penso che il suggerimento “provocatorio” gentilmente porto su un piatto d’argento da Riccardo Barenghi, stasera a Otto e Mezzo, sia molto sensato: facciamo in modo che le cose siano chiare ed esplicite, e cioè che siccome la politica ha i suoi costi, ecc., ecc. Così, aggiungo io, la finiamo una volta per tutte di blaterare di “superiorità morale” e compagnia bella.
Un suggerimento che non è destinato a ricevere l’autorevole endorsement del compagno rifondarolo Migliore, né quello di Travaglio Marco (anche loro ospiti di Otto e Mezzo stasera). Quest’ultimo, tuttavia, ha affidato al suo sito Web un articolo (che sarebbe dovuto comparire sull’Unità di oggi se non fosse stata in sciopero) che, fatta la tara della ben nota cordialità nutrita dal Nostro per il Cavaliere, potrebbe sembrare persino leggibile (oggi gli ossimori stanno di casa a WRH …):
Se in Italia non esistesse Berlusconi con la fairy band dei Previti e dei Dell’Utri, ce ne sarebbe a sufficienza per chiedere le dimissioni di Massimo D’Alema da vicepremier, di Piero Fassino da segretario dei Ds e di Nicola Latorre da vicecapogruppo dell’Ulivo al Senato. Quello che emerge dalle loro telefonate con Giovanni Consorte (e, nel caso di Latorre, anche con il preclaro “compagno” Stefano Ricucci) ha un solo nome: conflitto interessi, e dei più gravi. Naturalmente tutto il dibattito è falsato dalla presenza in Parlamento di Berlusconi e della fairy band, al cui confronto il gravissimo conflitto d’interessi Ds-Unipol-coop rosse impallidisce. Ma in un paese normale (espressione cara a D’Alema), nel quale dunque Berlusconi & C. fossero già stati sbattuti fuori dalla vita pubblica, i telefonisti rossi se ne dovrebbero andare su due piedi.
Un paese normale, tuttavia, non avrebbe prodotto un fenomeno Berlusconi, per la semplice ragione che non ci sarebbero stati né il più grande partito comunista dell’Occidente, né, di conseguenza, cinquant’anni di ininterrotto governo democristiano, né i fenomeni Di Pietro e Borrelli, e Travaglio, e chi più ne ha più ne metta. Perché, non mi stancherò mai di ripeterlo, tout se tient, mes chers amis.