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Per questo, cioè, per così dire, a causa della sproporzione tra il danno e la (tentata) riparazione, a qualcuno—non molti, credo—capita di detestare dal profondo del cuore, se non tutte, quasi tutte le rappresentazioni pubbliche del dolore. Un altro discorso, in ogni caso, è stringersi intorno alla bare avvolte nel tricolore di soldati caduti nell’adempimento del dovere, in nome e per conto di un intero popolo, la cui bandiera, appunto, si è scelto di servire, se necessario, fino al supremo sacrificio. Il tifo calcistico è palesemente un’altra cosa. L’emblema di una squadra di calcio, con tutto il rispetto, non è sullo stesso piano del simbolo di un’intera nazione. Al di là di tutte le degenerazioni sciovinistiche, alla bandiera nazionale è dovuto un rispetto che va oltre ogni spirito di parte, mentre al vessillo di una squadra di calcio si può essere affezionati, ostili o indifferenti, senza alcun problema. Chi non avverte la “differenza” non è neppure degno di essere cittadino di una nazione.
Viste alla tv, le scene di dolore e disperazione di oggi erano tremende. Molti si saranno identificati nel dolore di un padre e di una madre, di un fratello e degli amici più stretti, e tutti avranno pensato che morire a ventisei anni e in quel modo è qualcosa che va al di là di qualsiasi discorso. Ma c’era qualcosa che stonava: quell’essere tifosi in un momento in cui il tifo non c’entrava più nulla, se mai c’è stato un momento in cui c’entrava. E non solo: stonava che, in teoria, tra i tanti commossi presenti potesse esserci qualcuno che alla vita di un poliziotto non dà lo stesso valore di quella di un tifoso. Mi è capitato di pensare che onorare così quel ragazzo morto sarebbe stato, nel caso, come ucciderlo un’altra volta, e in maniera altrettanto idiota. Mi è capitato di compiangere una famiglia anche perché, nel caso, avrebbe potuto far poco o niente per evitare una simile evenienza.