Le tragedie vere ed autentiche, malgrado il termine “teatrale” col quale, appunto, vengono designati certi eventi, non sono quelle che possono essere rappresentate davanti a un pubblico, essendo troppo intime per poter essere condivise e troppo profonde per poter essere dichiarate, o urlate, o comunque date in pasto ad una folla, plaudente o piangente che sia, o tutte e due le cose insieme. Una famiglia romana ha oggi seppellito un figlio, un ragazzo morto in circostanze che attendono di essere chiarite definitivamente e senza reticenze. Il dato tremendo, irreparabile, è questo. Niente e nessuno può consolare quella famiglia, o almeno nulla che sia di questo mondo. Non certo la partecipazione di massa ai funerali di quel povero ragazzo. Neppure in un’epoca in cui tutto, ma proprio tutto, diventa spettacolo, e in cui, forse, solo l’esteriorizzazione di qualcosa trasforma quel qualcosa in un evento meritevole di pubblica considerazione e commozione.
Per questo, cioè, per così dire, a causa della sproporzione tra il danno e la (tentata) riparazione, a qualcuno—non molti, credo—capita di detestare dal profondo del cuore, se non tutte, quasi tutte le rappresentazioni pubbliche del dolore. Un altro discorso, in ogni caso, è stringersi intorno alla bare avvolte nel tricolore di soldati caduti nell’adempimento del dovere, in nome e per conto di un intero popolo, la cui bandiera, appunto, si è scelto di servire, se necessario, fino al supremo sacrificio. Il tifo calcistico è palesemente un’altra cosa. L’emblema di una squadra di calcio, con tutto il rispetto, non è sullo stesso piano del simbolo di un’intera nazione. Al di là di tutte le degenerazioni sciovinistiche, alla bandiera nazionale è dovuto un rispetto che va oltre ogni spirito di parte, mentre al vessillo di una squadra di calcio si può essere affezionati, ostili o indifferenti, senza alcun problema. Chi non avverte la “differenza” non è neppure degno di essere cittadino di una nazione.
Viste alla tv, le scene di dolore e disperazione di oggi erano tremende. Molti si saranno identificati nel dolore di un padre e di una madre, di un fratello e degli amici più stretti, e tutti avranno pensato che morire a ventisei anni e in quel modo è qualcosa che va al di là di qualsiasi discorso. Ma c’era qualcosa che stonava: quell’essere tifosi in un momento in cui il tifo non c’entrava più nulla, se mai c’è stato un momento in cui c’entrava. E non solo: stonava che, in teoria, tra i tanti commossi presenti potesse esserci qualcuno che alla vita di un poliziotto non dà lo stesso valore di quella di un tifoso. Mi è capitato di pensare che onorare così quel ragazzo morto sarebbe stato, nel caso, come ucciderlo un’altra volta, e in maniera altrettanto idiota. Mi è capitato di compiangere una famiglia anche perché, nel caso, avrebbe potuto far poco o niente per evitare una simile evenienza.