Gli stolti e petulanti “parrucconi,” insomma, non avevano capito nulla? Non direi. Capito, cioè, avevano capito, ma a modo loro, come è stato insegnato loro dall’Alta Scuola di Politica della Prima Repubblica, che hanno entrambi frequentato con profitto e dalla quale hanno imparato tutto quello che sanno fare, dire, pensare. E, attenzione, quella non era una pessima scuola, però aveva un limite: conosceva soltanto una realtà politica cristallizzata, immobile, dove il «potere di coalizione» delle forze politiche minori era fermo e saldo come una rocca di Gibilterra contro la quale erano destinati ad infrangersi tutti i calcoli dei partiti maggiori.
“Senza di noi, Berlusconi non può fare niente,” erano soliti ripetere i Fini e i Casini. Era vero, anche allora, soprattutto l’inverso, ma non avevano torto nemmeno loro, sic rebus stantibus, ma si dà il caso, appunto, che le cose siano nel frattempo cambiate: con la crisi irreversibile del bipolarismo—che era sotto gli occhi di tutti anche prima che il Cavaliere, con la svolta di ieri, ne ratificasse ufficialmente la fine—il «potere di coalizione» non ha smesso di contare, ma è destinato a contare molto meno. Sia col sistema tedesco e succedanei, sia con quello francese, che sono le due ipotesi fondamentali (il motivo, lo sappiamo, è che la “contrattazione” avviene dopo e non prima del voto, come adesso).
In più i nostri eroi hanno sottovalutato la capacità del loro alleato-avversario di sparigliare, e questo grazie al fatto che egli ha “una caratteristica forse unica nel panorama della politica italiana,” per dirla come Gian Antonio Stella (sul Corriere di oggi), cioè “il coraggio spericolato di giocarsela.” Insomma, spiega Stella,
Gianfranco Fini, Pier Ferdinando Casini e perfino Umberto Bossi, dopo l’ennesima spallata annunciata e poi fallita al Senato, sembravano avergli rubato finalmente la palla? Lui se l’è ripresa di forza, è uscito dall’area in cui pareva asserragliato e si è catapultato all’attacco con una di quelle «ripartenze» da lasciare a bocca aperta anche il «suo» Arrigo Sacchi.
Ma un errore ancora più madornale è stato quello di ignorare che, come ha notato Angelo Panebianco (ancora sul Corriere di oggi),
Berlusconi non potrebbe mai sedersi a un tavolo a discutere con Prodi ancora premier. Per la stessa ragione per cui Prodi non poteva trattare con Berlusconi quando il premier era quest'ultimo. I suoi sostenitori nel Paese non lo avrebbero accettato. Non lo accetterebbero oggi i sostenitori di Berlusconi.
Come spiegarsi un errore del genere se non alla luce di quanto si diceva pocanzi, e cioè, da una parte, la sopravvalutazione del «potere di coalizione» (fino ad una negazione piuttosto ingenerosa, oltre che miope, delle ragioni dell’alleato) e, dall’altra, la sottovalutazione del Cavaliere?
Ancora Panebianco illustra come non si dovrebbe interpretare la fase che ha preceduto la mossa di Berlusconi:
All'apparenza, il suo è stato fin qui un comportamento irrazionale. Garantendo che avrebbe fatto cadere il governo sulla Finanziaria, Berlusconi si è comportato come quel tale che entra in un casinò e si gioca l'intera posta in un colpo solo, puntando tutto sul rosso o sul nero alla roulette. Ma è davvero così? Non è possibile che anche quella iniziativa fallita fosse parte di un più generale disegno teso a mettere i suoi riottosi alleati in un vicolo cieco, obbligandoli a confrontarsi col fatto che senza di lui non possono andare da nessuna parte?
[Il corsivo è mio]
Personalmente sarei del parere che l’ipotesi di Panebianco sia piuttosto realistica, oltre che, naturalmente, molto acuta. Sarebbe allora esagerato concludere che il Cavaliere si è rivelato molto più «fine politico» dei suoi riottosi e politicissimi alleati? Altro che tentazioni plebiscitarie, come insinua Fini—che ovviamente, lui sì, è un vero democratico con tutti i crismi e le carte in regola ...
Detto questo, però, siamo solo al principio. Un buon principio, in ogni caso: siamo, intanto, fuori dal bipolarismo, e questa, diciamolo, è una grande conquista—a proposito, grazie Cavaliere!—per chi non ha mai creduto che in un Paese come l’Italia le scelte potessero essere così drastiche come è giusto che siano per gente che ha il pragmatismo nel proprio dna, come gli anglo-sassoni. Ma ora inizia una fase costituente per i liberali italiani. Il nuovo partito non può deludere le attese che la svolta del Cavaliere ha suscitato.