L’autore è già noto ai lettori di WRH ed è uno che conosce l’argomento come pochi in Italia. In più, è capace di raccontare cinquant’anni di sofferenza e di prepotenza in una maniera asciutta e nel contempo vivida, senza mai dar l’impressione di voler apparire per come non è: un testimone distaccato ed equidistante (semmai è possibile essere imparziali in certi frangenti). Il risultato è letterariamente magnifico, ma umanamente … è devastante (nel senso migliore e, se vogliamo, «cristiano» del termine). Leggere Buldrini, insomma, è un modo per vivere la tragedia tibetana. Ma, proprio come nella tragedia greca, la rappresentazione ha una valenza catartica, per chi se ne lascia coinvolgere.
Con questo voglio dire che io resto fiducioso. Ma sì, se dopotutto è crollato il muro di Berlino, crollerà un bel giorno anche la muraglia cinese. E sapete perché? Perché credo fermamente che un sogno come questo del Dalai Lama non potrà non realizzarsi:
«Il mio sogno è quello di trasformare l’intero altopiano del Tibet in un luogo dove le persone provenienti da ogni parte del mondo possano trovare il vero significato della pace dentro se stessi. Il Tibet potrebbe diventare così un vero centro creativo per la promozione e lo sviluppo della pace».
Noi dobbiamo solo fare ciò che è nostro dovere fare: parlarne, scriverne, marciare e … pregare. Il resto «accadrà», semplicemente, un giorno. Questo, a scanso di equivoci, per dire che il pensiero tautologico, o wishful thinking che dir si voglia, abita qui. Chiaro?
Ed ecco, qui di seguito, l'articolo di Carlo Buldrini (Il Foglio di mercoledì 5 dicembre 2007):
“Imiei colleghi e io personalmente le porgiamo il benvenuto e le più vive felicitazioni per il suo incolume arrivo in India. Siamo lieti di offrirle tutta l’assistenza necessaria per la sua permanenza in questo paese”. Il telegramma era firmato “Jawaharlal Nehru, primo ministro dell’Unione Indiana”. Un funzionario del governo consegnò il messaggio al giovane Dalai Lama a Tawang, un piccolo centro della North-East Frontier Agency indiana. Era il 3 aprile 1959. Tre giorni prima, in groppa a uno “dzo”, l’animale che nasce dall’incrocio tra una vacca e uno yak tibetano, il ventiquattrenne Tenzin Gyatso, il XIV Dalai Lama del Tibet, aveva attraversato visibilmente malato il confine che separa il Tibet dall’India.
La medaglia del Congresso americano
Il 17 ottobre di quest’anno, quello stesso Dalai Lama, oggi settantaduenne, nella rotonda del Campidoglio di Washington D.C., ha ricevuto dalle mani del presidente americano George W. Bush la medaglia d’oro del Congresso americano, la più alta onorificenza civile concessa dagli Stati Uniti. Consegnando la medaglia, il presidente Bush ha detto: “Onoriamo nel Dalai Lama un simbolo universale di tolleranza e di pace. Si tratta di una guida spirituale, per i suoi fedeli; di una persona che tiene viva la speranza, per un intero popolo”. Sul retro della medaglia era incisa una frase dello stesso Dalai Lama: “La pace è la manifestazione della compassione umana”. Prima di incontrare il presidente americano alla Casa Bianca, il Dalai Lama è stato ricevuto dall’allora primo ministro australiano John Howard e dal cancelliere tedesco Angela Merkel. Subito dopo la tappa negli Stati Uniti, è stato il primo ministro canadese Stephen Harper a incontrare ufficialmente il leader spirituale del popolo tibetano.
Quando il 7 ottobre 1950 quarantamila uomini dell’Esercito popolare di liberazione di Mao Tse Tung iniziarono l’occupazione militare del paese, il Tibet era una nazione libera e indipendente. A stabilirlo fu la stessa Commissione internazionale dei Giuristi che, riunita a Ginevra nel 1960, affermò che “dal 1913 al 1950 il Tibet aveva tutte le caratteristiche di una nazione indipendente, così come stabilito dalle leggi internazionali”. E, nel 1961, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite adottò la risoluzione numero 1.723 con cui si riconosceva al Tibet il “diritto all’autodeterminazione”.
La colonizzazione del Tibet da parte della Repubblica popolare cinese è avvenuta in tre fasi. Al periodo della “collettivizzazione”, iniziato subito dopo l’occupazione militare del 1950, fece seguito quello della Rivoluzione culturale (1966- 76). Durante queste prime due fasi, come diretta conseguenza dell’occupazione cinese, in Tibet morirono 1.200.000 persone su una popolazione di sei milioni di abitanti. Nel 1979, con la “liberalizzazione” di Deng Xiaoping, è iniziato il terzo atto della colonizzazione del paese. Una fase che dura tuttora e che il Dalai Lama ha definito di “aggressione demografica”. L’idea risaliva a Mao Tse Tung. Il Grande Timoniere, nel “Renmin Ribao” del 22 novembre 1952, scriveva: “Il Tibet copre una vasta superficie ma è scarsamente popolato. Bisogna aumentare di almeno cinque volte la sua popolazione”. Nel 1960 gli faceva eco Zhou Enlai: “I cinesi sono in gran numero e sono più progrediti economicamente e culturalmente. Tuttavia, nelle regioni che essi abitano, il terreno coltivabile e le risorse del sottosuolo non sono così abbondanti come nelle zone abitate dalla fraterna nazionalità tibetana”.
L’aggressione demografica
A partire dagli anni Ottanta è iniziato un massiccio trasferimento della popolazione cinese in Tibet. Con l’apertura, il primo luglio 2006, della ferrovia Golmud- Lhasa questa “aggressione demografica” ha subito una forte accelerazione. La conseguenza è stata che oggi, a Lhasa, la popolazione cinese è più del doppio di quella tibetana. Nella capitale del Tibet, nelle scuole medie, non si insegna più la lingua tibetana. Nelle campagne, alle donne tibetane, e in particolar modo a quelle appartenenti alle popolazioni nomadi, viene imposto un rigido controllo delle nascite. Molte sono costrette ad abortire. Anche le giovanissime vengono sottoposte a sterilizzazioni forzate. La libertà religiosa è solo di facciata. Le istituzioni religiose sono controllate dal partito comunista attraverso il Religious Affairs Bureau e i Democratic Management Committee di ogni monastero. Nel mese di ottobre di quest’anno l’Amministrazione statale per gli Affari religiosi della Repubblica popolare cinese ha approvato l’“Ordinanza numero 5” sulle “misure amministrative per la reincarnazione dei Buddha viventi in Tibet”. Con questa legge, il governo di Pechino si arroga il diritto di riconoscere il prossimo Dalai Lama e garantire così che sia un semplice burattino nelle mani del regime comunista cinese.
Il Tibet sembra non avere più un futuro. “Se questo processo continuerà – dice il Dalai Lama – sarà una tragedia per il mondo intero. Un’antica cultura scomparirà per sempre”. Per il suo paese, invece, il Dalai Lama aveva un sogno. Aveva detto: “Il mio sogno è quello di trasformare l’intero altopiano del Tibet in un luogo dove le persone provenienti da ogni parte del mondo possano trovare il vero significato della pace dentro se stessi. Il Tibet potrebbe diventare così un vero centro creativo per la promozione e lo sviluppo della pace”.
Il leader spirituale tibetano sarà in Italia da oggi al 16 dicembre.