Di Berlusconi e della svolta che, piaccia o no, ha impresso al centrodestra, si è già parlato su questo blog, e non credo, per quel che mi riguarda, di aver molto da aggiungere. E’ di Veltroni, invece, che qui non s’è detto ancora (quasi) nulla, e dunque è ora di colmare la lacuna. Da cosa cominciare? Beh, dall’intervista al Foglio di martedì scorso (che ieri, in un ritaglio di tempo, ho riprodotto qui in vista di questo post), cui è stato appioppato un titolo ambizioso: “Il manifesto politico di W.” Scelta azzeccata, direi. Quello che più di tutto colpisce, nell’intervista, è la capacità di «visione», e questa, lo confesso, è una sorpresa (per me), per quanto piacevole. E’ visione—corroborata da una buona dose di coraggio—il ragionamento sull’«identità» (“figlia della storia, delle culture, delle radici, delle ragioni,” cioè “un valore”), sul rapporto tra stato laico e punto di vista religioso (“riconoscimento della rilevanza nella sfera pubblica e non solo privata delle religioni e delle varie forme di spiritualità”) e sulla bioetica (“non tutto ciò che è tecnicamente possibile è moralmente lecito”). E’ visione l’approccio ad un tema particolarmente spinoso della politica estera quale l’«esportazione della democrazia»:
«Credo […] che non si possa avere un atteggiamento ideologico di contrapposizione all’idea che la democrazia possa nascere da un sostegno esterno, quando non nasce spontaneamente. Se mi si chiede cosa hanno fatto i soldati americani i cui corpi sono sepolti ad Anzio e a Nettuno, io risponderei così: “Hanno cercato di portare la libertà e la democrazia in un continente dove la libertà e la democrazia ce l’eravamo giocate.”»
[…]
«Rispetto a Saddam Hussein sicuramente le cose stanno migliorando. Quando si vive sotto una dittatura è chiaro che quando la dittatura finisce le cose migliorano.»
E’ visione il giudizio su Berlusconi:
«Io considero quello di non aver capito Berlusconi un sottosistema di un problema più grande, cioè il fatto di non aver letto le trasformazioni della società. Berlusconi è stato in grado, per esempio, nel rapporto con l’imprenditoria di dare voce a un’Italia che voleva rompere un po’ di lacci sulla quale ha messo una cosa che a me non piace culturalmente, e cioè una visione del mondo egoista, se vogliamo, individualista della crescita sociale. Combattere la politica di Berlusconi è stato ed è giusto, ma l’errore della sinistra è stato naturalmente quello di demonizzarlo.»
Ed sono visione i riferimenti all’«impazzimento giustizialista» dell’epoca di Tangentopoli (ma in questo è stato preceduto da Fassino e D’Alema), alla “Cosa bianca,” al partito senza correnti, a Nicolas Sarkozy e a Bernard Kouchner, e soprattutto il discorso sulle riforme, sulla necessità che il Pd corra da solo e l’auspicio che altrettanto facciano gli altri. Si può essere d’accordo o meno, in tutto o in parte, ma non si può negare che Veltroni sta dimostrando di essere un leader e di voler diventare uno statista, perché sono appunto il coraggio—di sfidare l’impopolarità e di farsi dei nemici, dentro e fuori il suo partito—e la visione ciò che fa veramente la differenza, e statista è colui che riesce a perseverare e a mantenere la rotta a qualunque costo quando è convinto di essere nel giusto, ma di questo, ovviamente, Veltroni deve ancora dare dimostrazione, anche se sembra sulla buona strada.
Del resto, come si legge oggi sul Corriere, pare che Walter Veltroni sia costretto a ripetere sempre più spesso, negli ultimi tempi, una frase significativa: «Guardate che io non mi faccio bruciare a fuoco lento». Significativa e sintomatica. Nel pezzo di Maria Teresa Meli si legge che Massimo D'Alema, in un'intervista a Vanity Fair, mette in guardia Veltroni dal fare una legge elettorale su misura di Pd e Forza Italia. E’ uno stop vero e proprio, scrive la Meli, e penso che abbia ragione. E non c'è solo D'Alema, chiarisce la Meli, a mettere i bastoni fra le ruote, c'è anche Piero Fassino (“i fassiniani si sono incontrati in gran segreto l'altro giorno …”).
C’è da sorprendersi? Macché, semmai ci sarebbe da sorprendersi del contrario: è una lotta per la sopravvivenza politica, cioè un diritto esercitato da tutti coloro che fanno politica (questo va detto per stoppare preventivamente gli ipocriti, che sono una brutta razza). Dunque non c’è da stracciarsi le vesti. Bisogna piuttosto sperare che Walter tenga duro, e che tenga duro anche Silvio. E che entrambi escano vincitori da una “guerra” che sarà senza esclusione di colpi. Ma questa è sempre stata la politica.
Il futuro, come è normale che sia, è nelle mani dei leaders dei due maggiori partiti: sta a loro dare all’Italia la grande riforma attesa da decenni. Sistema tedesco o francese, importa relativamente poco, quel che conta è innanzitutto un sistema elettorale che ci consenta di andare oltre il bipolarismo che abbiamo conosciuto e che ha fallito miseramente, e poi realizzare le riforme istituzionali che meglio si coniughino con la legge elettorale che si sceglierà. Senza pasticci e, possibilmente, volgendo la prua verso un tendenziale bipartitismo—nulla da spartire col bipolarismo, of course—che, ovviamente, non potrà suscitare gli entusiasmi dei “nanetti” di sartoriana memoria. E che la Forza sia con voi.