Nel dicembre 2007 e gennaio 2008 le forze armate indiane e cinesi “si sono prese per mano” e hanno effettuato un paio di esercitazioni militari congiunte, la prima in territorio cinese, nella provincia dello Yunnan, la seconda a Chusul in Ladakh, in territorio indiano. “Hand-in-Hand,” appunto, è la denominazione piuttosto poetica che è stata data all’iniziativa. E poetico, perfino commovente, è lo scopo della stessa: “combattere il terrorismo e garantire la pace, la stabilità e la creazione di un «mondo armonioso».”
Il guaio è che adesso il confine tra i due Paesi è presidiato militarmente, palmo a palmo, sia a oriente che a occidente, e dunque sarà dura per i militanti tibetani che il prossimo 10 marzo partiranno da McLeod Ganj (Dharamsala), in India, e tenteranno di entrare nel Paese delle nevi con la loro “Marcia del ritorno in Tibet.” I partecipanti sono perfettamente consapevoli dei rischi cui andranno incontro, e giustamente chiedono che il mondo sappia …
“Abbiamo bisogno di volontari, di gente che lavori nei media, di scrittori, fotografi, bloggers. Abbiamo bisogno di infermieri, cuochi, tecnici. E abbiamo bisogno soprattutto delle vostre preghiere.”
Eccoci, siamo qui. Lunedì 2 marzo Carlo Buldrini ha raccontato il tutto sul Secolo XIX di Genova. Un altro articolo imperdibile, che potete leggere per intero qui di seguito.
Una marcia pacifica per la librazione del Tibet
L’hanno chiamata la “Marcia del ritorno in Tibet”. Partirà da McLeod Ganj (Dharamsala), in India, il prossimo 10 marzo. Sarà l’evento più importante del Tibetan People’s Uprising Movement, un movimento lanciato da cinque organizzazioni tibetane in esilio: il Tibetan Youth Congress, la Tibetan Women’s Association, il Gu-Chu-Sum Movement of Tibet e gli Students for a Free Tibet. Tre sono le richieste che queste organizzazioni fanno al governo della Repubblica popolare cinese: 1. Che vengano rimossi tutti gli ostacoli che impediscono un ritorno senza condizioni del Dalai Lama in Tibet. 2. Che il governo cinese inizi a smantellare quell’occupazione coloniale del Paese delle nevi che dura da quasi sessant’anni. 3. Che la Cina liberi tutti i prigionieri politici tibetani, primo fra tutti il giovane Panchen Lama, Gedhun Choeky Nyima.
Nell’annunciare il Tibetan People’s Uprising Movement 2008, gli organizzatori hanno fatto esplicito riferimento all’insurrezione di Lhasa del 10 marzo 1959. Quel giorno, trentamila abitanti della capitale del Tibet circondarono il Norbulingka, il Palazzo d’estate dove si trovava il Dalai Lama. I dimostranti volevano impedire al giovane Tenzin Gyatso di recarsi ad assistere a una rappresentazione teatrale organizzata in suo onore a Silungpo, la sede del comando militare cinese a Lhasa. Tra i tibetani si era infatti sparsa la voce che i cinesi volessero rapire il Dalai Lama e portarlo con la forza a Pechino. La protesta degli abitanti di Lhasa sfociò in un’aperta rivolta. La notte del 17 marzo 1959 il Dalai Lama, con indosso una divisa militare e un fucile a tracolla, uscì dal Norbulingka e iniziò la sua fuga verso l’esilio indiano. La repressione della rivolta da parte degli uomini della People’s Liberation Army fu spietata. Provocò 87.000 morti tra i tibetani che cercarono di resistere. Il dato lo si trova nello stesso “Rapporto politico” dell’Esercito di liberazione popolare cinese del 1960.
Anche la “Marcia del ritorno in Tibet” che inizierà il 10 marzo 2008 ha un preciso riferimento storico. “A ispirarci è stata la ‘Marcia del sale’ di Gandhi e dei suoi satyagrahi del 1930” dice Tenzin Tsundue, una delle figure di riferimento per tutti i giovani tibetani in esilio. Così come il Mahatma, con la sua marcia, sfidò l’impero britannico in India, altrettanto vogliono fare i tibetani nei confronti della Repubblica popolare cinese. Sperano di poter raggiungere il confine del Tibet alla vigilia delle Olimpiadi di Pechino dell’agosto 2008. “Il nostro impegno a portare avanti una protesta non violenta è assoluto” dice Tsewang Rigzin, il presidente del Tibetan Youth Congress. Gli fa eco Tenzin Tsundue: “Dobbiamo capire una volta per tutte che la violenza, l’impugnare le armi, è un modo desueto per cercare di ottenere l’indipendenza. La nostra marcia costituirà una sorta di ‘sadhana’, un tributo spirituale a quella verità e a quella giustizia che ci ispirano nella nostra azione”.
Ma per i tibetani che si metteranno in marcia si prospettano giorni difficili. Nel dicembre 2007 le truppe indiane e quelle cinesi hanno effettuato un’esercitazione militare congiunta presso l’Accademia militare di Kunming, nella provincia cinese dello Yunnan. L’esercitazione è stata chiamata “Hand-in-Hand 2007” e ha avuto per obiettivo “il combattere il terrorismo e il garantire la pace, la stabilità e la creazione di un ‘mondo armonioso’”. Nel gennaio 2008 la stessa esercitazione congiunta è stata ripetuta a Chusul in Ladakh, in territorio indiano. Il confine tra India e Repubblica popolare cinese è dunque presidiato militarmente, palmo a palmo, sia a oriente che a occidente. I militanti tibetani non hanno fatto sapere da quale punto del confine intendono entrare nel Paese delle nevi. Tutti i partecipanti sono comunque coscienti dei rischi e dei pericoli a cui vanno incontro. Molti, alla vigilia della marcia, hanno donato tutti i loro averi, mettendo in conto la possibilità di non fare ritorno. Ed è per questo che chiedono di non essere lasciati soli. Dicono: “La nostra marcia offre a tutti la possibilità di partecipare a uno storico movimento non violento. Con esso vogliamo ottenere la libertà per un paese che, ancora oggi, è tenuto soggiogato. Unitevi a noi. Sosteneteci in qualsiasi modo possiate. Abbiamo bisogno di informare la gente della nostra marcia. Cammineremo per sei mesi. Potete unirvi a noi come sostenitori, per un giorno o anche per una sola ora. Oppure per una settimana o per un mese intero. Abbiamo bisogno di volontari, di gente che lavori nei media, di scrittori, fotografi, bloggers. Abbiamo bisogno di infermieri, cuochi, tecnici. E abbiamo bisogno soprattutto delle vostre preghiere”.